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 Insegnanet > Articoli > Italo Svevo: Senilità, l'inizio del romanzo

 
 
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    Fulvia AIROLDI NAMER
.: Italo Svevo, Senilità - l'inizio del romanzo (1998)

 

 

Quando Svevo si accinge a comporre il suo secondo romanzo nel 1898, da tre anni la sua vita ha subito una svolta decisiva: egli ha sposato la cugina Livia Veneziani, sperimentando così un'intensa felicità ma anche un'intensa sofferenza: senso di inferiorità rispetto alla ricchezza della fanciulla, gelosia per la giovanissima moglie, nei cui confronti si sente morbosamente «diverso». Pur conservando i suoi «impiegucci» tenta ancora una volta la letteratura, incoraggiato dalle critiche prudentemente lusinghiere che avevano accolto Una vita nel 1892. L'insuccesso totale di Senilità sarà uno dei motivi che spingeranno Svevo a «capitolare» davanti ai suoceri - ricchi industriali - e a chiedere un lucrativo impiego nella loro ditta nel 1899. La pace dell'anima verrà più tardi: la gelosia sarà sublimata soltanto nel 1903 nella commedia Un marito che precede la solenne e menzognera rinuncia alla letteratura. L'industriale Ettore Schmitz, distinto protagonista dell'intensa vita economica della Trieste asburgica, volgerà così le spalle all'«impieguccio» e alla «riputazioncella» di Emilio Brentani, testimone di un scacco dolorosissimo per il carattere molteplice, profondo, orgoglioso del trentasettenne impiegato, professore, giornalista.

Eppure Senilità rappresentava un effettivo progresso formale rispetto a Una vita. Il taglio del romanzo è equilibrato, le tentazioni del descrittivismo di tipo naturalistico sono accuratamente evitate. Ne sono una prova le primissime righe del capitolo iniziale, così diverse dalla lettera (banale come espediente, anche se pregna di intuizioni preanalitiche) con la quale il personaggio si presentava ne Una vita.

L'inizio di Senilità è apparentemente immediato e diretto anche se ad un'attenta lettura si constatano le oscillazioni, i ripensamenti, le aperte sfide al lettore da parte dell'autore. Un «qualcuno» che non viene nominato e sul quale non si hanno informazioni è introdotto da un avverbio, subito, che parrebbe quasi equilibrare con una precisione temporale l'assoluta mancanza di individuazione del personaggio. L'avverbio sembra quindi porre il racconto sotto il segno della rapidità e dell'efficenza, coadiuvato dallo spreco di termini indicanti azione e volontà (rivolse, volle, non intendeva). Ma se esaminiamo questa lista di verbi notiamo non solo che essi digradano dal «volere» alla semplice «intenzione», ma anche che convergono verso l'infinito compromettersi. Cioè Svevo presenta il pensiero che attribuisce al equilibrio tra i due estremi che anzi finiscono con l'annullarsi: la prima frase del libro fa sì che il lettore non sia illuminato. Pare anzi che Svevo lo voglia tenere apposta all'oscuro di tutto, trasformando l'inizio del capitolo in una falsa partenza più volte rinviata. Se questo è vero per l'opinione espressa dall'autore nella prima frase del libro - sulla quale ritoreneremo in seguito - lo è anche per la battuta di discorso diretto attribuita al personaggio stesso, ma con un artificio che ne indebolisce la portata: «Parlò a un dipresso così». La locuzione avverbiale scava un fossato tra l'autore e colui che parla evitando così che si stabilisca il binomio del romanzo tradizionale - protagonista scrittore onnisciente. Svevo cioè riferisce, senza però garantirne l'autenticità, certe parole che potranno essere soltanto delle mediocri apportatrici di informazione: Ti amo molto e per il tuo bene desidero ci si metta d'accordo di andare molto cauti. La cautela allegata dal personaggio riconferma il lettore nell'impressione suscitata in lui volontariamente dall'autore mediante il verbo compromettersi. La doppia precauzione (che farà poi capo al gruppo la parola prudente) orienta l'interpretazione possibile della frase che all'incirca il personaggio ha pronunciata. Apparentemente essa vuole esprimere una realtà affettiva fatta di amore e di altruismo senza che congiunzioni o avverbi avversativi turbino l'armonia tra i due sentimenti, espressa d'altronde in modo esplicito dalla parola accordo. Tanta limpida chiarezza è però messa a problema da un primo dubbio concernente il termine finale cauti: si tratta di cautela nei confronti dei propri sentimenti o si tratta del desiderio di un impegno limitato rispetto al mondo? Quale che sia comunque la motivazione di tale prudenza, è certo che qui - nel suo primo discorso diretto - il personaggio pare consideri la partner sul suo stesso piano di ragionevolezza e di vulnerabilità. Però, pur supponendo l'altra dotata come lui di sensibilità alle ferite inferte del mondo o dall'«io», colui che parla si considera superiore in quanto consapevole di agire per il bene altrui. Cioè, in questo discorso che Svevo attribuisce (ma senza una certezza assoluta) a un «qualcuno» del quale ha già volutamente sottolineato l'estrema prudenza, va delineandosi il carattere di un personaggio tenuto dall'autore a una debita distanza, che usa il linguaggio di un tiepido innamorato (molto a causa dalla non significatività che l'usura conferisce all'avverbio, impoverisce anziché arricchirlo il senso di t'amo) nel quale l'amore disinteressato per la donna trattata come un'eguale da proteggere accompagna il vigile controllo dei sensi e dei sentimenti. Se ci fosse la certezza che le parole riferite sono state davvero pronunciate dal personaggio, egli si presenterebbe come una persona disinvolta, lucida, capace di autocontrollo, abile nel cercare di spartire le responsabilità della situazione, per restare su di un piano di prudenza sentimentale e mondana.

Il discorso diretto però ha perso ancor prima di esser riferito il suo carattere di documento offerto al lettore dall'autore, perché questi nella propria frase di introduzione ha interpretato a priori a modo suo il personaggio proponendone una chiave di lettura. La scelta dell'infinito compromettersi escludeva infatti in anticipo che la cautela potesse interessare il bene della partner. Cioè, il verbo centrale della prima frase non indicava nessun interesse autentico per l'«altra», implicitamente presente soltanto nel termine relazione: «non intendeva compromettersi in una relazione troppo seria». Notiamo qua che l'avverbio e l'aggettivo che seguivano la parola spostavano l'attenzione dall'idea di rapporto a quella del valore di esso e della sua durata. Ma anziché optare decisamente per un'avventura non seria il protagonista, mediante l'avverbio, privava di precisione il proprio intento. Come il molto del successivo t'amo, troppo svigoriva e rendeva non significativa l'idea espressa dall'aggettivo.

Vediamo così che la frase interpretativa dell'autore che precedeva il presunto discorso da interpretare e che era introdotta da un verbo di volontà assoluta, indicava il pensiero del protagonista in modo più approfondito di quanto lo faccia il discorso diretto, perché riferendo quest'ultimo, l'autore nega implicitamente di esser certo della sua esattezza. Vi è quindi differenza di tono tra la frase del discorso indiretto che segue immediatamente Subito e la frase di discorso diretto della quale la prima è quasi un commento anticipato e un'interpretazione tendenziosa. Cioè vi è contraddizione tra il pensiero dell'autore e le prime parole che il personaggio dovrebbe aver pronunciate all'inizio dell'«avventura» che sarà - forse - l'oggetto del romanzo.

In tal modo l'autore immerge direttamente il lettore in una sere di abbozzi del fatto trascurando i preliminari - cioè l'antefatto. Solo l'età e lo stato civile del protagonista saranno rivelati poi nei paragrafi successivi, ma quasi di straforo, per illuminare l'avventura, non per situarla in un viluppo di cause e di effetti trattati naturalisticamente. Il personaggio ancora senza nome non ha una sua storia romanzesca e seria che preceda la sua intenzione di cautela e la sua presunta dichiarazione di altruismo (già smentita prima di essere pronunciata). Contrariamente ad Alfonso Nitti, eroe negativo di Una vita, la cui vicenda si inquadrava in un'esistenza «predestinata» al romanzo (inurbamento, rapporti pre-freudiani con i genitori, frustrazioni professionali) il protagonista di Senilità entra ex-abrupto nel capitolo, presentato dal discorso indiretto dell'autore che ne fa un personaggio falsamente volitivo e apertamente vile, pur dovendo riconoscere che le sue parole, ammesso che si possa prestar loro fede, forse sono tali da offrire un'interpretazione meno impietosa.

Ma a ribadire l'impressione con la quale l'autore comincia il romanzo, ecco un nuovo discorso diretto, mai pronunciato, che Svevo inventa con l'intento esplicito di presentare al lettore un'immagine finalmente attendibile del personaggio sfuggente ed irritante. Tra i due discorsi, un nuovo intervento dell'autore che apporta indirettamente certe precisazioni terminologiche; insiste infatti sulla prudenza del personaggio diventato esso stesso parola (La parola era tanto prudente che...). La prudenza è posta qui come sinonimo di impossibilità non tanto d'amore, quanto piuttosto di amore altrui. E importante notare che in questo inizio di romanzo amare e amore non compaiono mai nel loro puro significato ma sono sempre accompagnati da avverbi e da aggettivi che ne alterano il significato di base.

Un prudente parrebbe quindi incapace non tanto di amore quanto di altruismo: Svevo imbroglia le carte distogliendo il lettore dall'idea dell'amore. Questo sentimento è poi eliminato del tutto nel discorso che conclude il periodo, terzo tentativo di dare l'avvio al romanzo, che pure era cominciato sotto il segno della rapidità e della decisione.

Il «vero» discorso del personaggio, in questa sua nuova presentazione avrebbe dovuto suonare così. Il condizionale composto riempie di sé la frase, è greve di una sicurezza che sarebbe indiscutibile se l'uso del verbo dovere non si rivelasse a sua volta distruttore di senso maneggiato com'è da chi - come Svevo - sa, usando la lingua italiana, che essa gli permette di sottrarsi alla scelta che invece il tedesco gli avrebbe imposto tra sollen e müssen.

Svevo continuamente dice e si ritratta mediante l'uso stesso della lingua: commenta a fa nuove proposte. Per la terza volta in poche righe il personaggio è vivamente illuminato e invitato ad esprimersi in modo un po' più franco. Cioè, non semplicemente in modo franco: anche qui gli avverbi assolvono un'inabituale funzione di corrosivi del senso: nessuna informazione è così permessa sul grado di franchezza del personaggio, la cui natura sfuggente è paradossalmente affidata a un discorso che, secondo l'autore, non pronunciò ma che per la sua stessa non-esistenza dovrebbe essere il vero rivelatore del suo carattere.

Nella battuta del discorso un po' più franco, t'amo è scomparso. Resta l'avverbio molto, attribuito a un brutale mi piaci. Evitati i compromessi sentimentali dell'altruismo, il centro della frase è nella mia vita. Non a caso il titolo del romanzo precedente è inserito, quasi un monito ironico, nel discorso non pronunciato del nuovo eroe. Un verbo al futuro precisa negativamente la funzione che verrebbe ad essere attribuita all'«altra» nella relazione (non potrai essere giammai più importante di un giocattolo). E anche qui il verbo servile italiano permette interpretazioni non univoche se lo si confronta alla scelta che il tedesco avrebbe imposto tra mögen e können. Potere quindi resta il bilico tra la capacità organica e la scelta volontaria, anche se l'avverbio che lo segue ne fa il pernio di una scelta drammatica e inesorabile. Giammai preferito al più modesto mai, è enfatizzato dalla congiunzione negativa ed è forma letteraria e ricercata, senza però che con tale scelta di vocabolario Svevo voglia attribuire a priori certe caratteristiche culturali al personaggio. Neppure nel romanzo precedente infatti Svevo aveva cercato di individuare linguisticamente gli strati sociali, attribuendo a tutti la stessa koiné originale a mezza via tra le forme dialettali dell'italiano abitualmente parlato a Trieste e le strutture tedesche più familiari all'autore di quelle italiane. La lingua sveviana - oggetto di tante critiche - non mira né al purismo, né alla ricercatezza dannunziana, né al regionalismo programmatico, ma accoglie forme, strutture e lessico di origini diverse. La parola giocattolo ad esempio, verso la quale la frase converge, anche se è preferita a balocco, più decisamente orientato nel senso di una retorica popolareggiante, conferisce alla frase un sapore da romanzo di appendice rivela inoltre nel personaggio che la pronuncia un non dichiarato e un po' volgare complesso di superiorità. Una partner-giocattolo presupporrebbe infatti l'amante sicuro di sé del verbo volle dell'inizio, e non l'innamorato sincero che pone l'amante sul suo stesso piano del primo discorso diretto. Ma anche una seconda lettura di tipo romantico sarebbe possibile: la Coppelia di Hoffmann potrebbe suggerire un nuovo significato al rapporto col giocattolo (la bambola animata) capace di diventare un impegno sentimentale esaltato e totale. Ecco quindi che la duplice cultura dell'autore triestino permette di supporre interpretazioni divergenti ai vocaboli che egli sceglie, anche se qui appare evidente che il termine in questione sia usato con disprezzo, come nome di un oggetto trascurabile, riassuntivo dell'idea che il personaggio si fa dell'amata, che abbassa per meglio precisare la propria coscienza di sé. Ho altri doveri, io, la mia carriera, la mia famiglia. Il verbo è al presente, nitido, la frase breve e incisiva contiene le due parole rassicuranti di ogni esistenza piccolo - e medio-borghese (carriera, famiglia) preceduta ciascuna dal trionfale possessivo mia.

Il personaggio possiede due capisaldi della vita in città e desidera un giocattolo. Non può concedersi altro per non compromettere l'ordine soddisfacente della propria vita: così l'autore vorrebbe che si presentasse all'oggetto non più del suo amore, ma del suo desiderio il personaggio se fosse un po' più franco.

Quanto segue giustifica l'attenzione che abbiamo prestato all'uso corrosivo degli avverbi. L'autore ha scartato con irritazione la prima battuta attribuita al personaggio perché l'ha giudicata in parte insincera; ha supposto che la seconda proposizione sarebbe migliore perché un po' più franca senza per questo affermarne l'assoluta attendibilità. Ha orientato il lettore mettendolo però in guardia contro la terza presentazione del protagonista che sarà per Svevo non già il pretesto per cominciare il romanzo, bensì l'occasione di ritardare l'inizio dell'azione mediante la demistificazione di quanto egli stesso ha fatto dire. Col pretesto di indurlo a parlare con maggior sincerità, infatti, Svevo ha fatto pronunciare al suo personaggio due termini rispetto ai quali prova ora il bisogno urgente di intervenire per operare una scelta tra i diversissimi significati che essi possono assumere. I tre paragrafi che seguono saranno infatti un'illuminante messa a punto: la famiglia si riduce a una sola sorella - la carriera a due attività modeste e non impegnative.

La gestazione del personaggio è stata breve ma difficile. Per ben tre volte egli é stato confutato e rifiutato. Il romanzo è parso quasi impossibile fino al momento in cui l'autore ha detto due parole capaci di far scattare un meccanismo di esposizione fluida e coerente. Il discorso procederà ora in modo lineare, facendo emergere dal bozzolo delle sue contraddizioni un personaggio nel quale finalmente l'autore troverà caratteristiche familiari alla sua visione del mondo. Anzitutto il pronome lui ne definisce il sesso. Poi, senza più reticenze, senza falsi pudori o tentativi di oggettività, l'autore informa il lettore scegliendo accuratamente quanto intende rivelargli. Evita per esempio di svelargli per ora la complementarità dei caratteri del fratello e della sorella, per insistere soprattutto sulla loro differenza.

La sorella è l'opposto della donna-giocattolo intravvista nel paragrafo precedente. Due soli tratti autonomi la definiscono: piccola e pallida. Il primo aggettivo traduce in termini fisici i suoi rapporti con lo spazio, il secondo fa prevedere anche in Senilità la tonalità grigia cara allo Svevo della petraia carsica di Una vita. L'autore ritrattista del primo romanzo si fa pittore astratto: qui, la sua tavolozza anche se limitata, sarà più sottile e complessa di quanto lo fosse nel libro precedente, fatta di toni contrastanti - di grigi spenti e di bianchi luminosi, di gialli tristi e di ori trionfali. Con pochi tratti, Svevo disegna i contorni esigui della fanciulla, entro i quali accumula negazioni e comparazioni che paiono annullarsi a vicenda. Essa è più giovane di lui, ma più vecchia: è questo il nucleo di una lunga frase determinativa che potrebbe tradurre, mediante l'equivalenza supposta tra i due termini estremi, il titolo stesso del romanzo e indurre il lettore a scorgere nella pallida figura femminile il germe di una protagonista. (Senilità è in verità un titolo difficile da interpretare, che non soddisfaceva più lo Svevo della maturità. Quel titolo mi guidò e io lo vissi: così commenta la sua decisione di non mutarlo quando, nel 1927, dopo il successo de La coscienza di Zeno, curò la seconda edizione del suo romanzo più fortunato, pur aggiungendo Anch'io che so ormai che cosa sia la vera senilità, sorrido talvolta di aver attribuito ad essa un eccesso di amore).

È difficile però vedere nella fanciulla una protagonista, anche se apparentemente partecipa a quella confusione dei tempi della vita che potrebbe essere una definizione della senilità: infatti, ella non è giovane e vecchia in assoluto, ma è più giovane e più vecchia rispetto al fratello. Il comparativo indica nell'uomo il criterio col quale si definisce la donna che sintatticamente dipende da lui (ella viveva per lui come una madre dimentica di se stessa). Tanto per l'età quanto per la funzione, la fanciulla sfugge continuamente alla sua parte non solo di sorella minore ma semplicemente di sorella. Vive in una temporalità il cui fulcro è il fratello, rispetto al quale si determinano e si definiscono il suo aspetto fisico e la sua funzione sociale e perfino biologica. La donna, destinata a scomparire, identificandosi ad un'altra, anche nel ricordo, riceve da Svevo la paurosa incombenza di essere - per analogia - una madre: la madre abbandonata da Alfonso nella petraia carsica, diventa qui la sorella-madre rispetto alla quale il senso di colpa del protagonista sarà più facilmente mimetizzabile. Più vecchia di lui per carattere o forse per destino: stranamente l'autore pare qui offrire al personaggio un alibi che giustificherà il suo comportamento nei confronti della sorella, introducendo due termini assai sorprendenti a spiegazione dell'apparente mancanza di personalità della fanciulla: mentre forse pare indichi una certa reticenza da parte dell'autore che si serve di un termine logoro e melodrammatico, si direbbe invece che usando la parola carattere egli adotti per una borghese un criterio di spiegazione di tipo naturalistico che di solito riserva ai personaggi di origine «popolare». In ogni caso destino e carattere rappresentano due ipotesi assai sorprendenti, suggeriscono l'idea di una mano tesa al protagonista dallo scrittore che comincia ad assumerlo e si prepara in una certa misura a giustificarne il comportamento. Ma se gli offre un alibi nei confronti della sorella, non gli risparmia per questo un giudizio severo espresso in forma apparentemente assoluta: l'egoista, il giovane. Nel contesto però l'autonomia di lui è più illusoria che reale: egli ha la dimensione psicologica ma non la realtà del giovane, così come ella ha la dimensione psicologica ma non la realtà della madre. Ora, queste due affermazioni sono interdipendenti e si possono leggere così: ella viveva come una madre per lui, cioè con il suo altruismo lo faceva essere egoista e di conseguenza giovane. Il rapporto tra il fratello e la sorella appare così più sottile e reciproco di quanto sembrasse alla prima lettura. La pallida e piccola fanciulla nel vivere un rapporto falsato dall'analogia (come una madre) fornisce al fratello l'egoismo cioè la gioventù. Il rapporto celato da Svevo nella complessità della frase in cui egli abilmente sottolinea le parole apparentemente indipendenti (era lui l'egoista, il giovane), sarà poi surrettiziamente confermato quando i nomi dei due fratelli saranno resi noti, prudentemente, l'uno dopo l'altro: Emilio prima, Amalia poi. Come i loro nomi si somigliano, così fratello e sorella avranno bisogno l'uno dell'altra. Ma la reciproca dipendenza dei due giovani, suggerita per vie traverse, è per ora volutamente ignorata da Emilio, al quale anzi ora l'autore attribuisce propositi da mitomane. Al non ingombrante dell'inizio del paragrafo corrisponde infatti dopo la presentazione della sorella una serie di proposizioni che paiono voler negarne l'impressione di fragilità: altro destino importante legato al suo e che pesava sul suo, e così sentendosi le spalle gravate... Per la seconda volta in poche righe la parola destino è pronunciata, ma questa volta in funzione di un nuovo «travestimento» della pallida e piccola sorella, dovuto no più direttamente all'autore, ma alla malafede del fratello. Parlarne come di un destino; viveva per lui come una madre: le due proposizioni analogiche si trovano parallele nello stesso periodo, separate dall'avversativa ma e dall'uso di formule negative, secondo un procedimento che pare sia caro all'autore di Senilità: ma ciò non impediva a lui di parlarne come di... L'esistenza analogica di Amelia avviene o nell'istintiva fuga dalla realtà (come una madre) o nel discorso del fratello (parlare come di un destino). Nulla è detto sul modo in cui ella è pensata da Emilio, nel quale pare suscitare soltanto una reazione orale che traduce verbalmente una sensazione fisica (sentendosi le spalle gravate). Non vi è cioè accenno a un impegno sentimentale o psicologico da parte del personaggio maschile che si avvia a diventare un tipico non-eroe sveviano per il quale è normale procedere dalla sensazione fisica al discorso che esprime l'alibi della propria impotenza. Il peso della sorella fa parte della storia «naturale» della cautela della quale Emilio è accusato all'inizio del libro: di quella cautela che informa non soltanto la comunicazione con l'amata del primo paragrafo, ma, in generale, tutta l'esistenza del giovane.

Il discorso infatti si allarga ora in una panoramica su trentacinque anni (due meno dell'autore) di prudenza e di cura materne che costituiscono l'esistenza passata di Emilio, la quale fa capo al bilancio appena mormorato di una vita che l'autore considera senza acredine apparente. Se di Amalia erano presentati solo i contorni entro i quali accumulare coppie di nomi, di aggettivi e di avverbi, per Emilio questo procedimento binario va ora accentuandosi fino a diventare quasi un sintomo di schizofrenia. Egli è anima e cervello e, nell'anima, è brama e amarezza, nel cervello, paura di se stesso e della debolezza del proprio carattere, la quale gli si presenta come piuttosto sospettata che saputa per esperienza. Vediamo come i membri dei singoli binomi si scindano a loro volta in due, fino al membro di frase finale in cui la dicotomia concerne due verbi sospettare e sapere e fa capo a una parola netta e nuova: esperienza.

Il paragrafo consacrato alla «famiglia» si conclude così con una lunga frase che riguarda il giovane, dopo che questi ha goffamente eliminato la sorella, caricandola di tutto il peso della propria vita. Eppure proprio Amalia conferiva l'illusione della giovinezza all'uomo che, rispetto alla propria anima, parla di se stesso al passato prossimo (l'amarezza di non averne goduto) fornendo alla propria inazione l'alibi della vita già trascorsa. Il cervello invece è vigile, capace di lucidità ma non ancora di autoanalisi - cioè di esperienza diretta. Emilio, in definitiva, si accetta com'è in un mondo del quale ben poco è detto. Non è circondato da colleghi d'ufficio come Alfonso: anzi, il lavoro, contrariamente a quanto accadeva in Una vita è liquidato nel breve giro di una frase
(Di un impieguccio di poca importanza...). Mentre nel romanzo precedente Alfonso Nitti viveva su due piani con l'evidente e umiliante predominio delle necessità della vita «pratica» sull'urgenza del lavoro intellettuale, inteso come un obbligo e nel contempo come un marchio di superiorità, per Emilio Brentani - finalmente citato con nome e cognome - l'impieguccio non ha nulla di ossessivo ed è presto dimenticato, mentre la riputazioncella non è legata a un vano velleitarismo, ma è il frutto legittimo di un libro pubblicato.

Fin qui l'atteggiamento dell'autore rispetto al personaggio non è mai stato disinteressato; ora lo abbiamo visto diffidare di lui, ora più di rado porgergli una mano, prestandogli il concorso di un alibi. Ma ecco che, capovolgendo la situazione, lo stesso Emilio Brentani si confronterà con l'autore di Una vita. Ettore Schmitz, autore di novelle, di commedie, di romanzi, impiegato di banca, professore, giornalista si servirà del suo personaggio per mettersi in valore. Emilio infatti é pigro (l'altra carriera era letteraria e all'infuori di una riputazioncella... non gli rendeva nulla ma lo affaticava ancor meno) mentre la corrispondenza di Svevo dimostra a che punto egli soffrisse della propria povertà e si adoperasse per uscirne. Emilio non sente mai la mediocrità economica come un problema urgente. Lungi dall'esserne il ritratto, Emilio è in certo senso l'immagine capovolta di Svevo e delle vicende della sua vita. indifferente al denaro per pigrizia, il suo romanzo era stato lodatissimo dalla stampa cittadina. È questa una nuova dicotomia concernente il protagonista di Senilità che permette di porre in luce positiva - per contrasto - Italo Svevo: da un lato le lodi eccessive son ben diverse dall'incoraggiamentento semplicemente lusinghiero che accolse Una vita, dall'altra all'inerzia totale di Emilio si oppone l'attività febbrile del suo autore. Svevo cioè paragona implicitamente se stesso al personaggio e la comparazione gli è favorevole. Esorcizza infatti il pericolo dell'inerzia scrivendo un secondo libro che fin dalla prima pagina accusa il protagonista - che non scrive più - di essere un inetto, come era inetto Alfonso che dimostrò con una serie di atti mancati di non volere veramente il successo. Emilio la conobbe, la gloria cittadina, per un breve momento: ma la trascurò, e la città, non sollecitata, lasciò ingiallire il libro negli scaffali dei librai.

Fa così la sua prima apparizione nelle pagine di Senilità la città che sarà poi tratteggiata con colori spenti, linee astratte e gran vuoti di mare. Davanti alla città-giudice letterario, Svevo ha sfidato Emilio e sul piano dell'impegno professionale è uscito vincitore dal confronto. Ora però un rapporto più sottile si instaura tra l'autore e la città, la quale rappresenta non solo i lettori del libro di Emilio, ma anche i lettori del primo libro di Svevo che saranno i lettori eventuali di Senilità. Trieste é in grado di riconoscere un talento letterario? O vede soltanto nel libro un oggetto? un oggetto così importante, comunque, da meritare una descrizione fisica. Il libro è presente nel libro come cosa - come giocattolo affidato al capriccio del lettore cittadino. Il destino dell'opera letteraria di Emilio è di un'ironia corrosiva, premonitrice per l'autore che con involontario umorismo ne parla nella prima pagina del suo libro votato allo scacco. Svevo tratta il romanzo di Emilio da fenomenologo, senza accennare minimamente al suo contenuto, quasi geloso delle lodi di cui fu l'oggetto. Si attarda invece sulla sua presenza di «cosa» peritura: la carta è cattiva e ingiallita. Dopo il pallore di Amalia ecco il giallo del libro moribondo, prima apparizione nel testo del colore-chiave della vicenda, che ha qui la tonalità malefica del frutto proibito della Genesi. Appassito negli scaffali de librai, il romanzo di Emilio gli vale in città una specie di rispettabilità letteraria che, per il lettore di Senilità è assolutamente gratuita, dato il rifiuto da parte di Svevo di informarlo sul contenuto dell'opera del suo personaggio. Quasi scusandosi di questa evidente soperchieria, lo chiama Emilio con una familiarità che indica la benevola condiscendenza dell'autore, per il quale egli sarà invece soltanto il Brentani nei momenti di tensione e di disaccordo. Ora la presentazione del personaggio si colora della più affettuosa simpatia da parte di Svevo che non esita ad attribuirgli, dopo tante indicazioni di inettitudine e di viltà, una qualità positiva: la chiarissima coscienza che egli aveva della nullità della propria opera. Coronando con una negazione totale e assoluta il carattere prettamente negativo dei quattro primi paragrafi del libro, ecco che surrettiziamente Svevo annulla la validità del giudizio positivo pronunciato su quello stesso libro dalla città alla quale egli sta per affidare il proprio romanzo. Come accoglierà la critica che ha decretato il successo di un libro che il suo autore giudica, quello stesso autore in quanto personaggio, protagonista contraddittorio di un romanzo in cui nella confusione dei sentimenti oppone una certa lucidità intellettuale, la quale per un procedimento dialettico lo conduce dal riconoscimento della propria nullità al saldo radicarsi di un'illusione esistenziale. Emilio, personaggio incompiuto, si è precluso la via della fattiva attività intellettuale fino a giungere alla condanna senza appello della sua prima e unica opera, sfugge gioie e dolori allegando l'alibi di una famiglia quasi inesistente, pur essendo ancora capace di rifiutare la senilità dell'amarezza suggerita dall'anima per farsi, col ragionamento, giovane ed egoista. La coscienza chiarissima che pure gli fa toccare il fondo della propria nullità, per un capovolgimento dialettico, tipico della sua duplice natura, lo aiuta a fabbricarsi il mito della propria efficienza in fieri. Come Alfonso, come più tardi Zeno, Emilio è affascinato dalla contemplazione del proprio funzionamento di macchina vivente: «macchina» geniale in costruzione, non ancora in attività. Ma i termini che specificano macchina sono tre, come tre erano nel secondo paragrafo i gruppi di parole che volevano esprimere il senso di peso di Amalia: troppe notizie annullano la portata dell'informazione, e ancora una volta l'autore interviene - in forma aperta e diretta - per esprimere dall'alto della propria esperienza il proprio compatimento davanti alla cecità di Emilio: come se l'età delle belle energie per lui non fosse tramontata.

Dopo un avvia estremamente faticoso, che ad ogni istante sfiorava l'impossibilità della creazione letteraria, svelando gli artifici, i ripensamenti, la malafede implicita del rapporto personaggio-autore-lettore, Emilio Brentani acquista una certa consistenza quando Svevo può tentare un approccio del suo protagonista mediante successive negazioni suscitate dall'uso categoricamente affermativo di due termini - famiglia, carriera. Contro di essi l'autore reagisce con violenza, al punto di dimenticare le precauzioni e le esitazioni della prima frase.

Emilio si profila come personaggio duplice, anima e cervello, giovane e vecchio, amante prudente, fratello abusivo, impiegato senza storia, scrittore forse geniale per gli altri, nullo per il proprio giudizio. Si ascolta vivere; attende che gli ingranaggi della «macchina» si accelerino per fare di lui un genio e un uomo felice.

Il romanzo si è aperto su di una battuta di dialogo tra due innamorati. In quattro paragrafi, l'autore è riuscito a suggerire una certa conoscenza dell'uomo, senza per questo essere né onnisciente né suo complice. Anzi, il primo bilancio che Svevo fa a titolo personale del protagonista del romanzo è amaramente negativo: come se l'età delle belle energie per lui non fosse tramontata.

Accanto a quest'uomo sfiorito, desideroso di vita, ma incapace di generosità e di spontaneità, Svevo porrà nel paragrafo seguente una donna straordinaria e totalmente estranea al mondo di Emilio. In lei il bianco è luminoso, il giallo è oro, la parola è elementare, la menzogna trasparente: e tra i due comincerà fin dal quinto paragrafo il dialogo impossibile, nel quale consisterà l'intero romanzo.