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    Fulvia AIROLDI NAMER
.: Pasolini: Ragazzi di vita (1998)
(Il romanzo di P. P. Pasolini (1922-1975) Ragazzi di vita [seguito nel 1959 da Una vita violenta] è stato pubblicato per la prima volta nel 1955. Noi ci riferiamo all'edizione Garzanti del 1970 e in particolare alle pagine 40-42 del secondo capitolo.)
 

Il brano di Ragazzi di vita che commenteremo è tratto dal secondo capitolo, redatto in forma di racconto autonomo, come d'altronde tutti gli altri episodi del romanzo, in cui Pasolini affronta non più il mondo materno del Friuli sensualmente e realisticamente rivissuto, bensì l'universo autentico/immaginario delle borgate romane, che saranno poi trasfigurate dallo scrittore-cineasta nei siti aurorali e sordidi di film quali Accattone (1961) o Mamma Roma (1962).

Il capitolo intitolato Il Riccetto è centrato sul personaggio-filo conduttore del libro. Pur crescendo con gli altri ragazzi ai margini della società, egli se ne distacca in quanto protagonista e - paradossalmente - diventa da un capitolo all'altro sempre più evanescente e sorridente quasi dissolvendosi alla fine del libro in una specie di serena impassibilità.

Nel primo episodio di Ragazzi di vita, Il ferrobedò, il Riccetto (lo si conoscerà soltanto con questo soprannome) agiva con gli altri creando una successione di fatti rappresentativi di una vita banale, linguisticamente colorita da espressioni violente e triviali. La vita dei «ragazzi di vita» appariva come un succedersi orizzontale e monotono di avvenimenti e di imprese disparate (dal rito obbligato della prima comunione al furto ai magazzini della ditta Ferrobeton), collocati tutte sullo stesso piano, a mezza via tra l'indifferenza e il gusto dell'azione per l'azione.

Nel secondo capitolo, da cui è tratto il brano che analizziamo, la struttura narrativa si complica. Il Riccetto, cresciuto, si trova a tu per tu con un adulto, soprannominato «il Napoletano», specialista della truffa delle tre carte. Comincia tra di essi un dialogo in cui il ragazzo si ammaestra e nello stesso tempo si impone all'interlocutore a mano a mano che costui mediante il linguaggio si degrada, si decompone e, alla fine, scompare. Ha celato però in una specie di grotta dei soldi, i risparmi di una mesata di lavoro (39). Assimilabile al mito infantile del tesoro nascosto il denaro finisce tra le mani del Riccetto che comincia così (è questa la prima frase, a pagina 40, del del testo che analizziamo) una giornata straordinaria:

«Per questo, quella prima domenica di giugno, il Riccetto era tutto granoso e scherzoso.

Era una bella mattinata, col sole che ardeva, libero e giocondo, battendo sui Grattacieli puliti, freschi, attraverso chilometri di azzurro, e facendo piovere oro da tutte le parti. Sulle gobbe riverniciate del monte di Splendore o di Casadio, sulle facciate dei palazzoni, sui cortili interni, sui marciapiedi: e in mezzo a tutto quell'oro e quella freschezza, la gente vestita a festa formicolava al centro di donna Olimpia, alle porte dei caseggiati, intorno al chiosco del giornalaio...»

In questo brano si intersecano le due linee lungo le quali proseguirà la narrazione del capitolo. Esse corrispondono a due serie di avvenimenti, ossia da un lato a una vicenda che potrebbe boccaccescamente chiamarsi Storia di come Riccetto fu gabbato da Alvaro da Rocco e dalla Nadia. La seconda linea narrativa, inscindibile e contemporanea rispetto alla prima con la quale graficamente coesiste (mediante il sapiente intarsio di frasi in cui si rivela l'abilità costruttiva di Pasolini) fa capo a un'implicita protesta drammatico-lirica. Corrisponde infatti al racconto del crollo dell'edificio scolastico in cui vivono i borgatari: tra di essi si trova la madre del Riccetto (la quale muore) e il suo amico Marcello (che in un primo momento resta solo ferito). Il capitolo prosegue poi fino alla fine su di un binario unico e culmina nella morte di Marcello ricomponendosi in un'unità omogenea, diversa dall'unità composita del passaggio che leggeremo, dal quale - come abbiamo detto poc'anzi.

si dipartono appunto i due rami della storia i quali procedono alternati fino alla catastrofe dei senzatetto. Questo brano ci interessa, oltre che per la sua complessa struttura, anche perché presenta, giustapposti, tre campioni della scrittura pasoliniana: la descrizione di un paesaggio, un doppio ritratto, un dialogo. In essi l'autore articola, sperimentandolo, quel tipo nuovo di linguaggio che sarà una delle sue più notevoli invenzioni stilistiche, nell'alternanza di registri diversi e paradigmi eterogenei.

La prima frase del primo paragrafo colpisce per la sua serenità e la sua semplicità. L'avvio è affatto tradizionale: Era una bella mattina. Il verbo è all'imperfetto, la sintassi equilibrata e semplice si concreta in una principale seguita da una relativa e da due subordinate col verbo al gerundio. Ma più della struttura sintattica è interessante il vocabolario e, più precisamente, l'aggettivazione che possiamo situare su due piani.

Abbiamo anzitutto una serie di termini indicanti la calma e la pulizia (bella, puliti, freschi, azzurro) che in capo a una rapida scalata culminano nell'inatteso oro. A questo livello, cioè, siamo in presenza di un'inabituale e rara presentazione della borgata come di un dignitoso quartiere residenziale. Si direbbe anzi che per il tramite del termine oro, Pasolini metta in armonia il quartiere con il possesso, da parte del Riccetto, del denaro il quale assume nel racconto il valore di un talismano. Il vocabolario impiegato a questo livello e la struttura della frase rivelano che qui l'autore usa la lingua classica, anteriore agli esperimenti novecentisti, e aliena tanto dalle tentazioni della «bella pagina» quanto dalla scrittura verghiana o dall'espressione per così dire «mimetica». Qui, Pasolini si pone in un certo senso al livello «manzoniano» della lingua, ne assume forme medio-convenzionali che darebbero una pagina del tutto banale se due aggettivi non fossero la spia di un distacco e, insieme, di un'apertura: libero e giocondo.

Così è definito il sole (che ardeva libero e giocondo) il quale per un attimo cessa di simboleggiare la maledizione dell'estate riarsa nei prati sporchi, e si traveste da astro del vecchio inno imperiale di Pietro Mascagni:
Sole che sorge libero e giocondo / sui colli nostri i tuoi cavalli doma /
tu non vedrai mai nessuna cosa al mondo / maggior di Roma...

Cioè, questo paesaggio che potrebbe corrispondere a qualsiasi complesso urbano e «civile», questi grattacieli che tra poco, a pagina 47, saranno di nuovo, nella descrizione pasoliniana, file di scatoloni dalle finistre ossessive («Marcello invece, abitava ai grattacieli un po' più avanti grandi come catene di montagne, con migliaia di finestre in fila, in cerchi, in diagonali, sulle strade, sui cortili, sulle scalette, a nord, a sud, in pieno sole, in ombra, chiuse o spalancate, vuote o sventolanti di bucati, silenziose o piene della caciara delle donne e delle lagne dei ragazzini. Tutt'intorno si stendevano ancora prati abbandonati, pieni di gobbe, e monticelli, zeppi di creature che giocavano coi zinalini sporchi di moccio o mezzi nudi») è quel che resta dei colli nostri sui quali il sole avrebbe dovuto un tempo, nel ventennio fascista, domare i suoi cavalli.

Libero e giocondo sono così due aggettivi che fanno problema e abbiamo due possibilità di interpretarli. O rappresentano l'eco ironica di un inno guerresco assorbito nella koiné ambientale, divenuto cioè automatismo verbale, e in questo caso si tratta dell'intrusione indiretta del discorso interno del Riccetto nel pezzo di bravura di Pasolini. Oppure libero e giocondo è un voluto richiamo polemico al destino imperiale di Roma resuscitato artificiosamente nel secolo XX, al quale l'Urbe dovette il secondo grande sventramento postunitario del centro antico e l'emigrazione della popolazione verso le borgate. In quest'ultimo caso la tonalità visionaria della presentazione del rione dal nome poetico, Donna Olimpia, si attenua ed assume una velata sfumatura di protesta.

L'ambiguità insita nel carattere polemico e poetico (oppure polemico e poetico insieme) della descrizione pasoliniana è ancora maggiore nella seconda frase del periodo in cui il tema Azzurro-freschezza-dimore dignitose si sviluppa ( e in mezzo a tutto quell'oro e a quella freschezza, la gente vestita a festa formicolava) non senza però che si manifestino anche i termini-spia di una deformazione grottesca, proprio all'inizio della frase: Sulle gobbe riverniciate del monte Splendore o di Casadio. Il termine gobbe nega la grazia della mattina di sole, ma soprattutto i nomi altisonanti delle borgate sordide e degradate sono di per sé di una sinistra ironia. Monte Verde e Monte Splendore alludono al calore e alla luce, Donna Olimpia evoca una certa grazia barocca che stona con l'ambiente.

Abbiamo visto finora come un lungo periodo apparentemente eccezionale nelle descrizioni pasoliniane dei paesaggi urbani riveli per il tramite di certi inserti lessicali, una sottile deformazione grottesca o un mediato intento polemico. L'allusione della deformazione grottesca e / o caricaturale fa sì che si ponga qui il problema che concerne l'intera visione del mondo «borgataro» dell'autore friulano. Qual è il valore documentario della sue descrizioni? Qual è il vero volto - la fotografia per così dire - della borgata romana? Essa somiglia al quartiere presentato nella frase che abbiamo letto, la cui immagine blandamente borghese nonostante le puntatine ironiche, appare per un attimo nei Ragazzi di vita e sarà scoperta con maggior consapevolezza da Tommaso in Una vita violenta? Oppure la borgata è l'inferno di sudiciume e di degradazione che Pasolini presenta e/o inventa, risalendo a ritroso gli stadi dell'essere, compiendo, cioè, un viaggio mentalmente iniziatico che è nello stesso tempo ritorno alle sorgenti della vita e ricerca della lingua preborghese?

Possiamo dire soltanto che ora e qui, a pagina 40 di Ragazzi di vita, il Riccetto vive una domenica eccezionale e che la trasfigurazione borghese della borgata (tramite il vocabolario e gli stilemi di Pasolini) è in armonia con il fatto che egli è granoso e scherzoso - linto e pinto. D'altra parte, i puntini di sospensione alla fine del periodo indicano che il discorso sul sobborgo potrebbe continuare (e lo scrittore lo continuerà effettivamente nella seconda parte del capitolo, quando concentrerà la narrazione sul punto debole del quartiere - la scuola che crollerà, facendo sì che la morte concluda questa giornata radiosa).

Il brano descrittivo in lingua «comune» è compreso tra due brevi frasi in guisa di parentesi in cui è presentato il Riccetto stesso. La lingua media concernente il paesaggio è incorniciata così da espressioni blandamente gergali che sono però anch'esse già al limite della koiné - o parlato comune quotidiano: linto e pinto, saccoccia, granoso.

Si tratta anche qui di semplici inserti lessicali che non imprimono alla frase un tono particolare. La proposizione conserva il suo carattere narrativo lineare e piano. Cosa potrebbe essere più semplice di: Il Riccetto se n'era uscito presto di casa? La parola casa dopo i termini architetturalmente pomposi del periodo precedente (Grattacieli, palazzoni) si carica di un senso intimistico illusorio e inabituale. È come se fosse implicito un sillogismo avere denaro significa avere una casa / Riccetto ha del denaro / Riccetto ha una casa. Il possesso del denaro provoca quindi la trasfigurazione ottimistica dell'ambiente, così come suscita la tentazione dell'avventura. Il Riccetto infatti vuole staccarsi da una classe d'età (quella dei quattordici anni) in cui si agisce in gruppo, per accostarsi ai più grandi, che sono già «individui» imbarcati nella malavita (ironicamente definita «il lavoro»). Si tratta però di malviventi di mezza tacca, come Alvaro e Rocco che Pasolini aveva presentato a pagina 38:

«Finalmente il Riccetto aveva trovato una professione: non come Marcello che mo' s'era messo a fare il barista, o come Agnolo, che lavorava da pittore col fratello: ma qualcosa di molto meglio, qualcosa che lo faceva salire di rango fino a considerarsi ormai alla pari, per esempio, con Rocco e con Alvaro, che dai furti dei chiusini erano passati a mano a mano a dei lavori molto più impegnativi e di responsabilità, con tutto che, in conclusione, non c'avevano mai una lira in saccoccia e avevano due facce da pidocchiosi peggio di prima.»

Alvaro e Rocco sono quindi due modelli per il Riccetto il quale li scorge e li vede in mezzo a un gruppo di giovanotti che stanno a discutere gridando. Il raduno dei ragazzi di vita è paragonato, in modo irriverente e disincantato, a un comizio, a causa della confusione delle loro grida. L'identificazione surrettizia tra confusione politica, chiacchiere, l'accostamento malizioso dei tre termini comizio, discutere, gridare è indice dell'indifferenza e del qualunquismo politico dei giovani delle borgate. Più interessante è il ritratto di due di essi - ossia, di Alvaro e di Rocco - che contrasta per il suo tono sommesso e feroce ad un tempo con la linda e anonima scrittura della descrizione del paesaggio.

Sono immagini disegnate dal basso verso l'alto:
«Con certe brache di tela gonfie sul cavallo e strette alla caviglia, che, dentro, le loro gambacce si muovevano come fiori nel vasetto, incrociate come quello dei militari nelle fotografie: e con quelle facce, lì sopra che parevano due pezzi del museo criminale conservati sott'olio. Il Riccetto s'accostò a loro lasciando perdere i pischelli dell'età sua, che davano calci un po' più sotto alla palla rubata a un ragazzino che piangeva. Vedendolo, Alvaro voltò verso di lui la faccia con gli ossi acciaccati a martellate, che quando sorrideva andavano ognuno per conto suo, e gli fece, distratto:
- La vita te sorride, sì?
- Come no - fece non meno paragulo il Riccetto.»

All'inizio del periodo, l'aggettivo certe è indice di ricerca stilistica in una frase costruita d'altronde con tutte le finezze della lingua letteraria dall'autore che non si perita di usare il toscanismo brache. E proprio sulle gambe dei due compari Pasolini insiste pesantemente per mezzo di un anacoluto (che, dentro, le loro gambacce si muovevano come fiori nel vasetto) ossia di una figura del discorso popolareggiante frequente anche nelle pagine degli autori più tradizionali. Senza citare Verga e i veristi, lo stesso Manzoni si serve dell'anacoluto quando fa parlare i suoi personaggi più umili: gli esempi più celebri sono «lei sa che noialtre monache ci piace...» o «quelli che muoiono bisogna pregare iddio per loro». L'implicito riferimento ai Promessi Sposi, attesta indirettamente che la scrittura del capitolo resta almeno in parte legata alla tradizione letteraria. Originale invece anche se non rivoluzionaria è la tecnica pasoliniana della caricatura: gambacce e vasetto sono due parole alterate (un peggiorativo e un vezzeggiativo) che racchiudono a mo' di parentesi una prima comparazione (come fiori) la quale si regge non già sull'immagine, che è assurda, bensì sull'accostamento dei tre termini (gambacce - fiori - vasetto) tale da suscitare un effetto comico immediato ed irriflesso. Ben diversa è la seconda comparazione che si innesta sulla primale, le gambe sono incrociate come quelle dei militari nelle fotografie. Qui il paragone attira l'attenzione più sul secondo termine di comparazione che non sul primo (le gambe di Rocco e di Alvaro) il quale fornisce un pretesto per l'evocazione di una consuetudine popolare - la fotografia del coscritto.

Dopo che, mediante due analogie, ci si è attardati sulle estremità inferiori di Rocco e di Alvaro (e per ora non si può parlare di distorsione grottesca ma soltanto di esagerazione caricaturale, effettuata mediante l'impiego di strumenti linguistici tradizionali) lo sguardo del lettore stimolato a "vedere" si leva senza transizione sui volti, dove trova le prime note spietate di una deformazione violenta:
«e con quelle due facce, lì sopra, che parevano due pezzi del museo criminale conservati sott'olio».

Qui la comparazione più densa, solo in parte attenuata dal verbo parere, fondata sull'incastro di tre termini (pezzi di museo, museo criminale, pezzi conservati sott'olio), costituisce una scalata nel grottesco impietoso. Alla base c'è l'accettazione di un «tipo» criminale fissato secondo i canoni del museo lombrosiano e su di una voluta inesattezza. I pezzi anatomici secondo la mentalità popolare interpretata da Pasolini, sarebbero conservati sott'olio in modo da attuare mediante un termine di comparazione sottinteso, il passaggio dall'umanità all'animalità dei criminali, e quindi dei borgatari. Sott'olio suggerisce che si tratta di un'animalità commestibile la quale evoca ad un tempo la disumanizzazione e la fame mediante l'accenno indiretto all'animale che più di frequente si trova conservato nell'olio, la sardina.

L'animalizzazione (senza allusioni al cibo) dei personaggi, d'altronde, non è infrequente nei Ragazzi di vita, dove è operata per mezzo delle comparazioni, secondo una tecnica che si vale di sovrapposizioni e di insistenze. Per esempio, a pagina 29, il Napoletano «S'asciugò la faccia bagnata di pioggia, giovane e tutta rugosa, coi labbroni che gli pendevano a culo di gallina». In questo paragone con l'animale (diretto e volgarmente insistito) vediamo anche apparire una figura retorica cara a Pasolini: la «sinelciosi», cioè l'attribuzione di due aggettivi contrastanti allo stesso sostantivo (giovane e tutta rugosa). In altri luoghi invece, la disumanizzazione si fa mediante l'accostamento con generi alimentari senza la mediazione dell'animalità, come per esempio a pagina 31: «diventando rosso in faccia come un piatto di fettuccine» e a pagina 33: «Ma a mano a mano che beveva il napoletano si faceva sempre più strano: alla fine del secondo bicchiere [...]: la faccia gli s'era fatta come un pezzo di carne scottata...»

Il ritratto deformato si fonda quindi su analogie col mondo animale e/o con generi alimentari: nel caso di Alvaro e Rocco, il paragone culmina nella contaminazione dei due criteri. I due «ragazzi di vita» adulti vengono osservati con divertita cattiveria, momentaneamente attenuata dall'ironico vasetti che ingentilisce la visione macabra dei pezzi anatomici. Il divertito sarcasmo dell'autore cede a una sorta di impietosa partecipazione là dove, dopo il ritratto per così dire collettivo ed egualitario dei due compari, egli passa a tipizzare il solo Alvaro, del cui volto constata indirettamente la corruzione e la corrosione, osservando «gli ossi acciaccati a martellate, che quando sorrideva si smuovevano ognuno per conto suo».

Il rictus macabro di Alvaro si appesantisce nelle pagine successive quando «egli sposta su e giù gli ossacci della sua faccia» (41). A pagina 45, il giovane parlerà «rimestando le mandibole», ma soprattutto a p. 41 la mineralizzazione, e l'animalità commestibile della prima comparazione si intersecano nella frase «con l'ossame sgretolato di soddisfazione sotto la cotica». Qui, quest'ultima parola è il pernio di una nuova doppia assimilazione col mondo animale (il maiale) ed alimentare (la cotica). Nel giro di pochi paragrafi, Alvaro è presentato così tanto colla tecnica della animalizzazione e della reificazione legata all'universo della fame, quanto (a pagina 41) mediante un ritratto che, in forbito toscano, trasforma in «macchina inutile» il viso ridotto a una maschera metallica.

Complessivamente, l'immagine di Alvaro è un esempio dell'eccesso nella deformazione grottesca al quale conduce la vigilanza che Pasolini esercita sulla propria vena di poeta di adolescenti e di ragazzi; l'orrido suscita l'ironia e magari la pietà, mentre l'antica tenerezza del poeta de L'usignolo della chiesa cattolica (1943-49, pubblicato 1958) lo conduceva a una sensualità che egli stesso definiva torbida e innocente. Contrariamente a quanto accade in altre storie di adolescenti scritte o filmate da Pasolini, qui la complicità tra i giovani marginali non ha nulla di ambiguo: tra di essi vi è emulazione per sfruttare «gli altri» - gli abitanti del centro città - rispetto ai quali essi rappresentano - per l'autore - un grado primitivo e più puro dell'essere.

Ed egli guarda verso i giovani borgatari, aurorali e comunque «innocenti», come verso una sorta di vichiana preumanità, mosso anche dall'utopia di ritrovare (e / o ricostruire) le fonti di un linguaggio incontaminato - di un vero linguaggio «nazionale» e «popolare», immediato e virulento.

L'indagine induce l'autore a trasfigurare miticamente il sotto-proletario, che ritiene allegro perché attivo e gaio, disponibile perché amorale e aurorale. Per i giovani dei borghi trasfigurati in personaggi esemplari, le età si identificano con gli atteggiamenti!:
«Il Riccetto s'accostò a loro, lasciando perdere i pischelli dell'età sua, che davano calci un po' più sotto alla palla rubata a un ragazzino che piangeva».

È interessante notare qui la coesistenza nella stessa frase del termine romanesco pischello e di ragazzino, parola banalissima dell'italiano medio, che però in quanto diminutivo al posto di «bambino» deve la sua frequenza alla diffusione dell'italiano parlato a Roma (da non confondersi appunto con il dialetto della città) tramite il cinema post-neorealista.

L'uso di due registri linguistici può giustificarsi semanticamente se per pischelli intendiamo i piccoli borgatari amorali che, radicati nella realtà dialettale, prendono quello che possono. La vittima indifesa, più anonima e generica, è invece, pur essendo anche lui borgataro e romano, il ragazzino. Tra pischelli e ragazzino c'é un rapporto da «innocenti» persecutori a «innocente» perseguitato: insieme, essi costituiscono una collettività di età dalla quale vuole distaccarsi precocemente il Riccetto. Grazie al denaro che ha in tasca, può pretendere all'iniziazione dei «grandi» del quartiere, dopo esser passato attraverso la «scuola» degli adulti. Per questo, il Riccetto «lascia perdere i pischelli dell'età sua» e la rapidità e la precocità delle sue esperienze nel borgo e nella città determinano il sorgere e l'affermarsi del suo carattere di «protagonista».

Il dialogo che segue tra Alvaro e il Riccetto (Rocco non parla) è interessante anzitutto per la sua mancanza di novità stilistica, in secondo luogo per la sua struttura trasandata. Anche qui, come nel primo paragrafo esaminato, Pasolini resta parzialmente fedele a certi criteri convenzionali e conserva, ad esempio, tra le battute i verbi del paradigma del «dire» (sei volte fece, due volte disse, una volta ripetè) introducendo una certa varietà solo alla fine del brano.

Questo campione di conversazione ci induce a chiederci in che modo l'autore contribuisca a sormontare la «crisi» del dialogo nella letteratura italiana degli anni Cinquanta e Sessanta. Non sembra che egli voglia innovare né in senso intimistico come Carlo Cassola, né in senso sperimentalistico come Francesco Leonetti.

- La vita ti sorride, sì?"

- "Come no", fece non meno paragulo il Riccetto.

Era così sicuro di sé e così allegro, che Alvaro lo riguardò con un certo interesse.

- "Che fate oggi?" Fece del resto il Riccetto stesso.

- "Boh" fece Alvaro, prendendo tempo, con espressione da una parte stanca, dall'altra allusiva e misteriosa.

-"Che, se n'annamo a Ostia? Fece il Riccetto, "oggi sto ingranato".
- "Eh" fece spostando su e giù tutti gli ossacci della sua faccia Alvaro. "C'avrai du piotte, c'avrai.

Pasolini adotta una scrittura mimetica quando trascrive dialetto, gergo, e interiezioni inserendoli in una cornice tradizionale. Se a proposito del «Boh» borgataro è stato osservato negli anni Sessanta dal giornalista e drammaturgo Wilcock che 27.000 giovani del suburbio romano non sapevano più dire altro, gergo e dialetto e parlata romanesca hanno nel dialogo funzioni diverse: notiamo per esempio che il gergo concerne il denaro (piotte, sacchi, la grana). La parlata romanesca va invece dal solecismo (la vita te sorride) alla ripetizione espressiva (c'avrai du piotte c'avrai) e agli usi morfologici (tengo) per culminare nell'inserto triviale che, sormontando il dialogo, dilaga nella didascalia. Paragulo è il segno linguistico (e la sostituzione della gutturale sorda alla sonora rende al termine la sua dimensione semantica) mediante il quale Pasolini riconduce il Riccetto, che pur ha presentato linto e pinto, granoso e scherzoso, allegro e sicuro di sé all'infimo livello dei pischelli di vita.. In questo modo mette il ragazzo in armonia non più colla visione imborghesita del quartiere, bensì con i due «grandi» di cui crede di avere ottenuto la complicità e che invece lo inganneranno esattamente come i pischelli derubano il ragazzino secondo i dettami di una non scritta «legge della giungla» che tutti accettano.

«Era così sicuro di sé, così allegro»: l'allegria dei «sottoproletari» pasoliniani è la garanzia del loro vitalismo. Riccetto ingannatore sarà ingannato, ma per ora crede tutto facile tutto possibile: lo scopo nella vita è l'alleanza coi forti e coi potenti, dei quali bisogna cercar di ottenere la sconfitta.

Il dialogo-duello tra Alvaro e il Riccetto rivela una specie di machiavellismo suburbano. Il carattere astuto del «grande» è messo in ironico risalto da un inserto descrittivo: la frase è lunga e banale e una certa originalità le viene conferita soltanto dagli aggettivi, dei quali notiamo così una volta ancora la funzione strutturale.

«'Boh', fece Alvaro prendendo tempo, con espressione da una parte stanca, dall'altra allusiva e misteriosa.»

Stanco, è un termine semplice e affatto comprensibile come pure misteriosa che però troviamo in dittologia con allusiva, parola quasi aulica che Pasolini introduce nel breve inserto narrativa di un dialogo del quale abbiamo sottolineato il carattere mimetico. Cioè, malgrado il suo «populismo» di base, lo scrittore «dotto»cerca la complicità dal lettore di pari cultura - non resiste alla tentazione (o gli sfugge un accenno) di rivelare la propria matrice culturale.

Abbiamo visto come la «storia» sia in questa pagina-campione estremamente semplice e gli strumenti della narrazione a mezza via tra la tradizione e l'innovazione. Vi si trovano infatti descrizioni, ritratti caricaturali e grotteschi, interventi dell'autore sul registro ironico mediante certi aggettivi (libero e giocondo) o colto (allusiva). In linea di massima l'interesse linguistico del brano è affidato soprattutto all'aggettivazione, che appartiene a più di un paradigma: italiano medio, dialettale, allusivo, caricaturale, triviale, e poi anche toscaneggiante, romanesco, gergale.

In questa breve lettura ci è parso evidente il carattere funzionale della scelta del vocabolario, quando essa permette di stabilire certe opposizioni (pischello/ragazzino; allegro/paragulo). Il problema è appurare se tale funzionalità sia sempre presente, e se la ricerca dei parlari non letterari obbedisca in ogni occasione al disegno preannunziato dal Pasolini, in lingua friulana, di ricercare un linguaggio anteriore e più puro, risalendo i vari gradi dell'essere verso quell'umanità primitiva che il regista del film tratto dal Decamerone crederà di riconoscere nel volgo soprattutto napoletano del '300.

Pasolini parte nella sua ricerca di un nuovo linguaggio letterario dalla constatazione che in Italia vige una specie di «trilinguismo»:

- dialetti negli stati popolari

- koiné nella borghesia

- gergo letterario nelle élites intellettuali.

Ed egli denuncia il pericolo - del quale rischia di essere vittima egli stesso nelle proprie opere - che gli intellettuali credano in un nuovo preziozismo quando dice «il soffio di letterarietà proveniente dall'alto a fissare in una terminologia diversa, linguisticamente quasi squisita nella sua estrosità e vivacità, la tendenza mimetica verso il basso è di genere naturalmente e tipicamente novecentista; una forma di sveltita e furbesca prosa d'arte».