In questo articolo tratto dalla mia tesi di laurea, analizzerò i modi attraverso cui il genere, nelle sue variabili legate a status e classe, si interseca col potere, e cioè, attraverso quali modalità di genere si articolano i rapporti di potere nel mondo igbo. Nel corso dell'articolo verranno analizzate le caratteristiche sociali e istituzionali di questa popolazione legate a questi concetti, per poi proseguire con parallelismi con altre culture, compresa quella occidentale.
Come accennato in precedenza, in questa popolazione si assiste ad una sorta di intercambiabilità dei ruoli di genere, attraverso una sorta di transizione da un genere all'altro, con la conseguenza che ruoli e posizioni sociali normalmente occupate da individui di un sesso/genere, possono essere acquisiti e raggiunti dall'altro. Da un lato esiste una precisa suddivisione di ruoli politici, sociali e lavorativi basata sul genere, dall'altro si registra una sorta di intercambiabilità che permette passaggi e spostamenti da un ruolo ad un altro, e da un genere all'altro: al cambiamento dell'uno corrisponde il cambiamento dell'altro, e viceversa.
La prima figura che intendo analizzare è quella che Amadiume (1987) definisce «figlia maschio», presente a livello per così dire istituzionale a Onitsha e, in casi particolari, in altre località. Nel primo caso, come accennato nel capitolo I.1. della mia tesi, il genere maschile veniva assunto per nascita dalle primogenite del linguaggio, legate agli interessi maschili anche attraverso l'inserimento nel sistema di cariche sacerdotali che costituiva una delle basi strutturali del lignaggio. Una situazione per certi versi analoga, ma più rara, viene citata da Amadiume (1987:32-34) riguardo alla città di Nnobi: una donna, nella posizione di figlia, attraverso specifici rituali che prendevano il nome di nhayikwa o nhanye, veniva decretata maschio allo scopo di coprire un vuoto nelle posizioni lasciate vacanti per mancanza di uomini idonei a ricoprirle. La donna subentrava infatti quando, non essendoci una discendenza maschile, era in pericolo la trasmissione dell'eredità paterna che veniva in questo modo salvaguardata. La sua condizione di genere poteva, in caso di ulteriore mancanza di figli maschi o per decisione indipendente, essere ereditata dalla figlia, che in questo modo creava un lignaggio parallelo matrilineare. Infatti, come afferma B. Greene (1998), «l'identità sociale della figlia maschio era spesso ereditabile; essa in alcuni casi diveniva un marito femmina ma non necessariamente. Le categorie di figlia maschio e marito femmina costituivano separate posizioni di genere» (ivi: 7).
A proposito della figlia maschio sono N. W. Thomas (1914: 60) e H. K. Henderson (1969: 126) a spiegarci le modalità e le motivazioni di questo passaggio di genere in cui la donna assumeva, a seconda delle zone, il nome di idebwe o adagbe. Il primo antropologo riporta infatti che «una donna diventava solitamente idebwe se il padre non aveva figli maschi; la figlia non abbandonava la casa paterna e veniva considerata come un uomo, e suo figlio, se ne aveva, il suo erede. Nel caso non avesse figli [...] poteva sposare una «moglie» i cui figli avrebbero potuto ereditare» (ivi: 60). Poco oltre l'autore aggiunge che,
di solito si assegnava a una figlia il ruolo di idebwe in mancanza di figli maschi ma ad Asaba, Onitsha Olona, Obuluku e Ubulubu, il fatto che ci fossero figli maschi non impediva al padre di rendere una delle sue figlie idebwe, permettendole così di ereditare la casa e le proprietà paterne [...] A Onitsha Olona il padre [attraverso uno specifico rituale] rendeva la figlia idebwe e le costruiva una casa; assumeva le veci del marito e offriva doni al sacerdote. Se lei non aveva figli maschi poteva rendere a sua volta idebwe una delle sue figlie femmine. (ivi: 78-9, corsivo mio)
La seconda antropologa si riferisce a questa figura col nome di adagbe, riferendo che:
un uomo che ha solo figlie femmine può sceglierne una che dovrà rimanere in casa, non sposata, e generare figli che saranno i suoi eredi. Questa donna chiamata adagbe [...] è considerata come un uomo; suo figlio diventerà così erede del di lei padre. Questa usanza è diffusa anche tra gli Igbo occidentali e dell'area di Akwa. In entrambe le zone la donna può aiutare ad amministrare la proprietà paterna, ereditare la casa del padre e possedere questa e altre proprietà. Può inoltre pagare il prezzo della sposa per una moglie se lei non può avere figli. A Onitsha Olona, sulle sponde occidentali del Niger, il padre può pagare al sacerdote del lignaggio il prezzo della sposa per la figlia. Nel caso in cui la figlia non generi figli maschi, in qualità di adagbe, può comportarsi come il padre e assegnare alla figlia il suo stesso ruolo (ivi: 126).
Come si può osservare dalle fonti, lo status e il genere di queste donne era piuttosto particolare: venivano definite figlie maschio attuando una sorta di mescolanza tra posizione di genere femminile (nel ruolo sociale di figlia) e posizione di genere maschile (nel ruolo sociale di figlio maschio che aveva l'ulteriore possibilità di acquisire il ruolo di marito femmina). In quanto maschi avevano infatti la possibilità di: a) gestire ed ereditare i possedimenti paterni, b) sposare altre donne cui spettava il compito di generare la discendenza col nome di «marito femmina». In alcune zone le figlie, in quanto donne, (attraverso una sorta di escamotage giuridico) transitavano dalla loro posizione di figlie a quella di mogli, permettendo al padre di assumere nei loro confronti il ruolo di marito. Il padre pagava per questo una parte del prezzo della sposa garantendosi così la loro permanenza nella casa paterna. L'adagbe/idebwe poteva anche scegliere di generare i figli da sola attraverso il rapporto con degli amanti che non potevano poi rivendicare diritti sui figli. Il matrimonio tra donne diveniva necessità in caso di sterilità, ed era importante come mezzo per acquisire e dimostrare il prestigio sociale conferito dall'avere mogli in un sistema di poligamia, e permetteva contemporaneamente di avere anche una maggiore forza lavoro.
Possiamo dunque osservare dagli esempi citati come in questa popolazione si attuino frequenti transizioni di genere e status: la figlia poteva passare dal genere femminile a quello maschile, dalla posizione di figlia a quella di moglie (del padre) e contemporaneamente allo status di marito femmina nel caso decidesse di sposare altre donne. Anche V. Uchendu (1965: 50) si occupa di questo fenomeno osservando che «il matrimonio tra donne è un'istituzione in cui le donne possono rendere visibile il loro status nella società. Il marito femmina, pagando il prezzo della sposa, acquisisce diritti sulla moglie e sui figli di lei se non ne ha di propri». L'antropologo aggiunge anche un dato interessante che riguarda quelle donne che riuscivano ad occupare questa posizione. Esse avevano tanto potere che, «potevano permettere ai loro mariti di esercitare i loro diritti [quelli che solitamente concernevano il ruolo di marito], ad esempio accettando le loro mogli come co-mogli» (corsivo mio). É questo un esempio che dimostra la forte posizione sociale che le donne, come marito femmina, potevano raggiungere. Secondo lo studioso questa modalità matrimoniale era stata creata per fornire alle donne abili e ricche la possibilità di ereditare la terra attraverso i figli, superando in questo modo un'ingiustizia sociale che glielo impediva (ivi). Vorrei sottolineare che lo status legale e sociale dei mariti femmina era paritario a quello dei maschi: le regole che costituivano il matrimonio tra donne erano le stesse del matrimonio tra uomo e donna. L'obbligo di prestazioni sessuali che i coniugi avevano nel matrimonio, veniva in questo caso ovviato dalla presenza di amanti scelti per svolgere questa funzione. A questo punto, per capirne meglio le modalità, risulta necessaria, la differenziazione all'interno del ruolo di marito femmina, proposta da O'Brien (cit. in Greene, 1998: 7) in:
- marito femmina autonomo, e cioè una donna che crea e controlla il suo surplus economico e paga il prezzo della sposa;
- marito femmina fittizio, e cioè un marito maschio che paga il prezzo della sposa per una donna che ha la possibilità giuridica di diventare marito femmina; tutto ciò si presenta come un mezzo per incrementare la prole del marito maschio.
In questa seconda categoria Greene fa anche rientrare le donne che, sempre con l'intento di rafforzare il legame parentale, sposavano le figlie del fratello. Mentre nel primo caso era la donna, che aveva il ruolo di marito femmina a gestire autonomamente il matrimonio, nel caso del marito femmina «fittizio», il suo status giuridico in realtà non appare molto diverso da quello della prima moglie in una situazione di poligamia. In questo caso essa aveva sì più potere rispetto alle altre mogli, ma non poteva agire autonomamente rispetto al marito. Mi sembra che attraverso queste modalità si evidenzi l'interconnessione tra genere e potere, poiché solo le donne ricche, e quindi provviste di autorità sociale, potevano affrontare il pagamento del prezzo della sposa.
Differenti sono invece i casi di passaggio di genere e ruolo dal maschile al femminile. Quello che Amadiume (1987: 53, 101) definisce «uomo femminile», era infatti il sacerdote della dea Idemili. Come per una specie di assimilazione al genere della dea, egli doveva indossare abbigliamento femminile, e doveva inoltre rispettare dei tabù esclusivamente femminili, come quello del divieto di salire sugli alberi. Sono invece R. N. Henderson (1972: 215) e Thomas (1913: 52) a parlarci degli uomini che assumevano il ruolo di moglie. Il primo antropologo descrive una situazione consueta in cui il termine moglie veniva assegnato agli uomini che, all'interno di una relazione di lavoro o simile, occupavano una posizione subordinata: infatti il termine
[...] marito è usato per definire una persona che possiede un alto grado di controllo su alcune attività; un uomo che ha raggiunto eccezionali capacità nelle prestazioni agricole può essere chiamato «marito [padrone] dell'igname». [...] Quando un uomo è definito «moglie» questo implica una relazione basata sull'obbedienza e il servizio (1972: 215).
Il secondo antropologo ci descrive la città di Nri (che ha in seguito preso il nome di Aguku), il cui re (che aveva un'alta funzione spirituale) aveva al seguito, come servitori, dei ragazzi in età prematrimoniale. Essi venivano chiamati «mogli», e per loro era pagato un «prezzo della sposa». In entrambi i casi si tratta di un rapporto di subordinazione gestito attraverso una transazione economica in cui, alla posizione con lo status più alto veniva assegnato il termine di marito, a quella con lo status inferiore, quello di moglie. La terminologia usata fa emergere, a mio parere, una subordinazione della posizione della moglie rispetto a quella del marito. Mentre questi esempi (tranne che nel caso della figura sacerdotale) indicano un passaggio di genere contraddistinto da una posizione sociale inferiore, si può notare che non avviene il contrario. Quando le donne passano dal femminile al maschile acquisiscono maggiori opportunità e possibilità sociali ottenendo così una maggiore autorità. Diciamo che, in generale, ciò che maggiormente caratterizzava la società igbo precoloniale era una certa elasticità e adattabilità del sistema alle esigenze dei suoi membri atte a garantirne la sopravvivenza. Il sistema attuato da questa popolazione era fondamentalmente costituito da alleanze basata, come si è visto, su uno scambio di generi e ruoli atto a garantire una certa mobilità sociale.
A proposito del genere e del matrimonio tra donne, mi sembra interessante tracciare un paragone con la popolazione africana Nuer, secondo la rilettura di Kathleen Gough (1971), e con due esempi proposti da Tabet (1979). I Nuer, in forte espansione territoriale e per lo più dediti all'allevamento di bestiame, fondavano la loro struttura sociale su una 'oligarchia' aristocratica basata sulla discendenza patrilineare. Mentre lo studioso Evans-Pritchard, che se ne è principalmente occupato, studiando la popolazione secondo un'ottica androcentrica, definisce il principio dell'agnazione come fondante della società Nuer, Gough nella sua analisi si concentra sulle incongruenze soprattutto della sfera femminile. Infatti la studiosa osserva come, sotto l'apparente preponderanza di patrilignaggio, la maggioranza della popolazione in realtà stabilisse legami matrilineari attraverso due sistemi: 1) considerando un'antenata come se fosse stata un uomo, cosicché una donna del clan dominante veniva assimilata al genere maschile, 2) il matrimonio tra donne, attuato da donne ricche e aristocratiche. L'autrice cita il caso di una donna aristocratica divenuta la figura politica più importante del villaggio, il bull, ruolo solitamente occupato da uomini. Anche in questo caso, come abbiamo visto tra gli Igbo, viene dimostrato che attraverso uno scambio di genere le donne acquisivano posizioni di potere in parte attraverso legami tra donne, emancipandosi dalla dipendenza maschile. Il punto di riferimento, anche simbolico, in entrambe le culture era comunque maschile, dal momento che quello spostamento di genere che porta all'acquisizione di uno status alto rimaneva per lo più univoco. Il caso del sacerdote citato da Amadiume risulta infatti unico tra gli Igbo. Esso, a mio giudizio, assume le forme di un «omaggio rituale» al genere della dea, con la particolarità di un cambiamento esteriore, l'abbigliamento, che denota il suo passaggio di genere. In generale, si può affermare che in entrambe le culture le donne appartenenti a classi sociali alte e/o fornite di una certa ricchezza, avevano una notevole possibilità di cambiare il loro status e di godere di autonomia rispetto al maschile oltre che di maggior prestigio e riconoscimento sociale. Di diversa valenza sono gli esempi riportati da Tabet (1979: 106-7), la quale ci prospetta il caso di una donna Crow che educata come un uomo (visti i suoi precoci interessi per le attività «maschili»), diviene una famosa guerriera, entrando a far parte del consiglio dei capi e sposando tre donne. In questo caso l'assimilazione all'altro genere era così socialmente determinante per l'identità della donna da comprendere anche una sessualità deviante rispetto alla norma. L'altro esempio riguarda la popolazione Kaska, presso la quale in mancanza di figli maschi, una delle femmine veniva educata come tale e costretta ad avere solo rapporti omosessuali (ivi: 107). I due casi, diversificati dalla possibilità di scelta in un caso, e dalla costrizione dall'altro, sono accomunati da una categoria di genere intrinsecamente connesso a quello della sessualità.
Spostandosi nell'Europa del 1800, Nadotti (1996:29-35) riporta il famoso caso (citato per la prima volta da Foucault 1979) di un ermafrodita. Alla nascita, i medici, non sapendone decifrare il sesso, ma sentendosi obbligati ad assegnargliene uno, gli diedero quello femminile (battezzandola Alexina). Il problema emerse quando, durante la crescita, le sue preferenze sessuali non si dimostrarono «adeguate» al genere assegnato: Alexina si interessava, con grande sofferenza, alle donne. Dopo varie vicissitudini, Alexina espose il suo caso ad un medico che, in virtù del potere conferitogli della scienza, gli assegnò un nuovo sesso (maschile) ed un nuovo nome:
Alexina, ribattezzata Herculine, viene riconosciuta uomo a tutti gli effetti. D'ora in avanti indosserà solo abiti maschili e amerà solo le donne. Tutto è tornato al proprio posto: Alexina non poteva amare gli uomini perché era un uomo; Alexina amava le donne perché non era una donna. Una banale questione di definizione e di collocazione: Herculine, maschio, era finito nella casella sbagliata, tra le femmine. Rettificato l'errore può ricominciare a vivere, questa volta dalla parte giusta, come se niente fosse stato (ivi: 30).
Tuttavia, nonostante il cambiamento di genere, l'identità della persona rimaneva la stessa, ciò che cambiava, come afferma Nadotti era il suo status (ivi: 32).
Nel 1997, presso la facoltà di Lettere e Filosofia
dell'Università di Firenze, il gruppo di studentesse universitarie
Cassandra, ha invitato Maria Nadotti a tenere una conferenza su
sesso e genere. La studiosa riportò l'episodio, accaduto nell'odierna
Albania, di una donna che aveva assunto il genere maschile. Essa
infatti, venuto a mancare il capofamiglia, per mandare avanti l'azienda
agricola, ne prese il posto attraverso a) la trasformazione del
suo aspetto in maschile, b) l'assunzione, de facto da parte
della cognata del ruolo di moglie c) lo svolgimento dei lavori agricoli
e la gestione economica dell'azienda. Anche in questo caso la donna
assume genere e status maschile nell'ottica di salvaguardia
della proprietà terriera, evidentemente accessibile solo al
genere maschile; la donna attraverso questa performance,
legittima a livello sociale ciò che normalmente verrebbe condannato:
l'omosessualità. In questo caso, come nella popolazione Crow
e Kaska, l'«abiezione» viene per così dire nascosta da un passaggio
di genere e diventa lecita, «normale»; si può facilmente supporre
che se la stessa donna avesse attuato questa scelta autonomamente
e per così dire allo scoperto, il suo cambio di genere e le
sue tendenze sessuali avrebbero dovuto subire la condanna sociale
e il marchio di «innaturalità» (che possiamo ancora oggi riscontrare
nella società occidentale). Si crea qui un paradosso che nasce
da una logica di genere bipolare (due sessi <-> due generi)
che assume l'eterosessualità come norma. Paradossalmente in
questo ferreo binarismo, in virtù o a causa della corrispondenza
tra le categorie di sesso, genere e tendenza sessuale, automaticamente
la donna che assume il genere maschile diventa socialmente
uomo, potendo e/o dovendo avere rapporti omosessuali socialmente
approvati. Similmente al caso degli Igbo, è il sistema sociale
a «spostare le caselle» e a decidere come e dove collocarle per
la salvaguardia della struttura stessa, tanto che con Butler potremmo
chiederci quali siano i corpi che «contano» e chi li fa «contare».
Mentre il sistema igbo presenta, come abbiamo visto, una struttura dotata di una certa elasticità, diverso è il caso dell'Occidente basato sulla rigidità dovuta alla naturalizzazione o biologizzazione delle categorie. Come fa notare Stolke 1996, il problema dell'operazione culturale Occidentale della «naturalizzazione» operato su sesso e razza, riguarda la sua immutabilità, la sua inesorabilità. In Occidente, da un lato la religione con i suoi dogmi, dall'altro la scienza con le sue verità, hanno dato vita ad un blocco sopravvissuto inalterato per secoli. È con gli studi di genere che per la studiosa, si è cominciato a decostruire queste categorie, sottolineandone l'interdipendenza reciproca e scardinando le costruzioni discriminatorie basate su quei presunti fenomeni naturali e su dogmi religiosi che le hanno, nel tempo, legittimate. Anche Butler pone l'accento sulla pratica della ripetizione che consolida la norma sociale. In questo senso, il motivo per cui la società rifiuta le pratiche «extranormative» (travestitismo, transessualismo e omosessualità) è la destabilizzazione che esse creano all'interno di un sistema dove anche la paternità, a differenza degli Igbo, passa attraverso la biologia. Secondo la studiosa, il genere in Occidente è costruito attraverso relazioni di potere e coercizioni normative che non solo producono, ma regolano i vari esseri corporei; il sesso, assorbito dal genere, diventa una finzione che si rende attiva e opera attraverso la performance. Penso che i due concetti possano applicarsi anche al sistema igbo, in cui è attraverso questi elementi che si attuano e si rinsaldano sia la norma eterosessuale, che garantiva la discendenza del lignaggio, sia i ruoli di potere che garantivano il buon funzionamento della struttura. Le donne potevano ottenerne alcuni, come abbiamo visto, attraverso abilità e ricchezza, altri semplicemente tramite un cambio di genere che comportava solamente l'acquisizione di maggiori e diverse possibilità, solitamente maschili. Lo scambio di genere dunque, rappresenta una concreta modalità di acquisizione di potere, un fatto che, a mio parere, non fa che dimostrarne l'intrinseca validità.
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