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    FRIED Ilona
.: Culture Teatrali

2/3, primavera - autunno 2000

Quarant'anni di nuovo teatro italiano

 

Scabia, de Berardinis, Socìetas Raffaello Sanzio, Teatro della Valdoca, Marcido Marcidorjs e Famosa Mimosa, Le Albe, Sudano, Neiwiller. Arnaldo Picchi, Della "Bella Addormentata" di Rosso di San Secondo, Gioia Ottaviani, Sul Buto

Direttore: Marco De Marinis, Redazione: Insegnamenti di Storia del Teatro e dello Spettacolo e Semiologia dello Spettacolo della Facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università di Bologna, DAMS

Il numero doppio tematico della bella rivista Culture Teatrali raccoglie saggi e testimonianze di grande vitalità e interesse sul 'nuovo teatro' italiano, facendo in particolare modo riferimento ai gruppi emersi negli anni Ottanta. Sono gruppi del resto, che si è avuto modo di conoscere anche in Ungheria per via della loro continuata presenza nei teatri di Budapest. Penso agli spettacoli della Socìetas Raffaello Sanzio, del Teatro della Valdoca, delle Albe, e anche di Fanny & Alexander (una realtà artistica di più recente formazione, ma già solidamente affermata)... Anche se, per varie ragioni fra le quali, in primo luogo, le mancate traduzioni dei testi, i gruppi italiani non sono in realtà riusciti ad incidere sulla cultura e la mentalità del teatro.. Speriamo comunque che i rapporti che si sono stretti in questi ultimi anni siano fecondi di conseguenze. Naturalmente, dopo l'89, anche i gruppi e gli studiosi ungheresi hanno avuto modo di conoscere e frequentare direttamente le realtà del teatro italiano: ora ci sono meno ostacoli alla conoscenza reciproca tra le nostre culture teatrali.

Per questo mi sembra ancora più importante conoscere i risultati degli studio e gli attuali orientamenti degli artisti. Il numero di Culture Teatrali mi sembra un'ottima occasione per approfondire entrambi gli argomenti, ricordo inoltre, ad attestare l'interesse di parte ungherese, che un volume scritto da Marco De Marinis è già stato recensito su Criticai Lapok.

Nonostante l'ampiezza del periodo e le varie tipologie teatrali prese in esame, "Quarant'anni di nuovo teatro italiano", riesce a conciliare profondità di vedute ed equilibrio formale: tra i saggi teorici che delineano le strade percorse dal nuovo teatro, vorrei citare prima di tutto l'introduzione dello stesso De Marinis, il saggio di Gerardo Guccini (che, ormai da anni, svolge col nostro Dipartimento un'attività volta ad incrementare gli scambi teatrali fra Italia e Ungheria) e i contributi di Carlo Infante. Si tratta di studi che presentano parametri generali utili all'inquadramento delle varie correnti. Oltre che a questi testi di taglio complessivo, il lettore può fare riferimento alle dettagliate schede biografiche e note introduttive che precedono gli interventi degli artisti. Il volume propone di considerare le vicende del 'nuovo teatro' assumendo l'osservatorio italiano, perché la mutata forza d'impatto e diffusione dei valori culturali consiglia ora di privilegiare le situazioni circoscritte, le singole realtà, la natura individuale della ricerca artistica. Mentre negli anni '60 si erano verificati influssi e mutamenti culturali di portata planetaria, negli anni '70 e '80 prevalgono i fenomeni "molecolari", che riguardano territori più limitati. Per questa stessa ragione il volume non pretende tracciare un quadro completo delle realtà italiane, ma come sottolinea De Marinis, preferisce procedere per casi esemplari che esamina in modo approfondito. È una scelta che, come dice Marco De Marinis , riflette la concezione della rivista in quanto "spazio pluralistico per incontrare le voci, i pensieri, le visioni degli artisti teatrali."

Siamo naturalmente su un terreno nuovo, finora poco esplorato: fare una sintesi generale del Nuovo Teatro è un'impresa difficile e forse impropria; elaborare materiali che consentano in futuro di acquisire culturalmente la molteplice realtà teatrale di questi anni, sembra essere invece l'obiettivo che De Marinis si è proposto di raggiungere con questo numero di "Culture teatrali". Vanno inoltre rilevati alcuni fattori che definiscono il carattere e l'impegno di questa iniziativa: la presenza di studiosi giovani, che indagano con sguardo nuovo i mutamenti del teatrale; lo stretto rapporto con gli artisti; il continuo scambio di idee tra studiosi, intellettuali attori e gruppi teatrali, che non si perdono neppure un istante in teorie astratte, ma portano la riflessione al cuore dell'avvenimento teatrale.

Storicizzando i quattro decenni del Nuovo Teatro, De Marinis segnala il 1959 come data di esordio del Nuovo Teatro in Italia. Ai riferimenti alla scena internazionale (il Teatr-laboratorium di Grotowski, la San Francisco Mime Troupe di Ronnie Davis, l'Happening di Allan Kaprow e il Living Theatre) corrispondono, in Italia, Carmelo Bene che esordisce con Caligola di Camus e Carlo Quartucci che presenta Aspettando Godot.

Del resto, , come viene rilevato, i protagonisti e gli eventi della scena internazionale influiscono in modo determinante sul teatro di sperimentazione italiano. I due grandi maestri con i quali forse hanno avuto più contatti i giovani teatranti degli anni Settanta e Ottanta sono stati Grotowski e Eugenio Barba, ma non è passato senza conseguenze neanche il periodo di lavoro in Italia di Kantor. Naturalmente i gruppi seguono una propria strada e, in prospettiva, individuano drammaturgie, estetiche, modi di fare ed 'essere' teatro originali e assolutamente irriducibili, ma si inseriscono anche in un clima politico-sociale internazionale che, specie negli anni Settanta, in cui il 'nuovo teatro' si consolida ed assesta, determina una base di pratiche formative e valori culturali largamente condivisi e sedimentati. Il teatro esce dagli schemi della tradizione e imposta su altre basi i rapporti con le arti: la musica, la danza, le arti visive entrano a far parte dell'organismo essenziale del teatro, non sono più complementi alla forma del dramma rappresentato, ma entrano nelle cellule dell'evento teatrale. E' quindi molto sentito l'interesse per modalità di espressione diverse dalle tradizioni precedenti o anche solo genericamente 'teatrali': mi riferisco in particolare alla cultura performativa del Senegal ripresa dalle Albe di Ravenna in originali esperienze di meticciato, oppure alla musica jazz, che suggerisce schemi processuali idonei alla cultura della 'performance'.

Quello che accomuna le varie esperienze del nuovo teatro italiano, è la tendenza a sostanziare nel corpo dell'attore il mondo che c'è dietro alle parole, e a creare momenti che oltrepassino la dimensione dell'intrattenimento spettacolare instaurando un rapporto nuovo tra pubblico e gruppo, tra platea e spazio scenico.

L'altra caratteristica comune è il percorso artistico vissuto con grande impegno, l'autenticità nel lavoro, la costante autoanalisi che conduce gli artisti teatrali a seguire il processo creativo con una consapevolezza a sua volta espressiva, poiché veicolata da una scrittura di bruciante intensità (penso alle parole di Mariangela o di Chiara Castellucci). e "Quarant'anni di nuovo teatro" non mira a sintesi premature, ma stabilisce connessioni fra percorsi ormai assestati e compiuti e il magma della situazione attuale. De Marinis distingue due fasi storiche, la prima, articolata, complessa, e avviata dai momenti di svolta degli ultimi anni Cinquanta, si chiude negli anni Ottanta. Eventi chiave: "la chiusura definitiva del Teatr-Laboratorium di Grotowski in Polonia nel 1984, o la scomparsa di Julian Beck l'anno seguente" Così dopo la conclusione delle avanguardie storiche e delle neoavanguardie, il momento attuale sarebbe quello del nuovo teatro "dopo i Maestri", come lo chiama De Marinis mettendone in rilievo uno specificità essenziale, o del "nuovo teatro post-novecentesco", per citare Guccini.

Riferendosi al teatro del secondo dopoguerra, De Marinis suggerisce un'ulteriore tripartizione:

  • "1950-1970: fase di avvento e di ascesa del nuovo teatro, caratterizzata da un lavoro di ricerca e sperimentazione limitato a piccoli gruppi e a pochi artisti sparsi per il mondo;
  • 1970-1985: fase di diffusione di massa della ricerca e della sperimentazione avviata dai Maestri, con l'affermarsi del teatro di base, o di gruppo, chiamato anche (da Eugenio Barba) "terzo teatro",

- 1985-2000: terza fase, che manifesta compiutamente solo negli anni Novanta i suoi caratteri di novità e discontinuità rispetto alle due precedenti. In questo periodo assistiamo all'avvento di gruppi e di artisti di un'altra generazione, l'ultima per ora (o forse già non più, visto che si parla adesso di Next Generation, generazione Duemila, etc.), per la quale non vale più gran parte delle tensioni ideologiche, etiche ed estetiche che avevano fondato il lavoro dei padri e dei fratelli maggiori e che nel teatro, nella scena, investe altri bisogni, altri valori e un altro immaginario: e tuttavia per essa le ricerche e le acquisizioni del nuovo teatro degli anni Sessanta-Settanta-Ottanta costituiscono [...] un patrimonio tecnico-espressivo imprescindibile, una vera e propria tradizione, appunto." Gerardo Guccini stigmatizza la disattenzione degli studi nei riguardi del nuovo teatro degli anni Ottanta, parlando di "rimozione storiografica". Le conseguenze di questa sospensione della memoria collettiva sarebbero molto gravi: c'è, ad esempio, un'evidente difficoltà a ricollegarsi agli antecedenti. "Il che a ben vedere - dice Guccini -, inaridisce il gusto del confronto e l'esercizio della memoria e, fra le varie realtà del teatro, indebolisce proprio quelle che continuano a richiamarsi all'esigenza del "nuovo", privandole di parametri, di criteri, di oggettivi riscontri d'identità."

Nell'"infinito intreccio di avventure", per citare ancora Guccini, del teatro del Novecento, sono presenti un'infinità di miti comuni, che, però, avrebbero bisogno di venire conservati, cioè narrati, pensati, rivissuti. Come lo studioso afferma: "Le realtà del nuovo teatro coesistono, da un lato, con un sistema informativo che non ne riconosce le identità e le esigenze, dall'altro, con una storiografia che tende ad inquadrarle in un'area epigonale, dove le grandi rivoluzioni, gli eventi epocali e i "miti" paradigmatici, quelli che narrano e sono la storia, si sarebbero già verificati una volta per tutte. Volendo fare una graduatoria dei rischi implicati dalle incomprensioni fra questi tre livelli - del teatro esistente; dell'informazione; della riflessione storica - mi sembra che il punto focale della crisi risieda soprattutto nei rapporti fra il primo e il terzo. E' infatti comprensibile che gli organi di informazione tendano a confrontarsi con le aspettative dei propri fruitori, ancor più che con le qualità intrinseche degli argomenti affrontati. Mentre è preoccupante che la riflessione storiografica converta le straordinarie conoscenze acquisite sul teatro del Novecento in paradigmi culturali, che, applicati alle manifestazioni del presente (un presente che dura da più di vent'anni), diano alimento a strategie riduttive e volte alla rimozione." I grandi maestri degli anni '60 hanno vissuto il teatro anche come fatto etico, storico, sociale, mentre gli artisti "venuti dopo" ne hanno avuto una percezione più individuale, e mediata dall'identità del mondo contemporaneo, del quale il teatro condivide la "frammentarietà, il trasformismo, il sincretismo, la multimedialità e il riconoscersi nel (deflagrante) modello temporale dell'attimo." Guccini evidenzia poi la nascita di un teatro a metà strada tra la ricerca e l'impegno sociale, di un teatro che non dimentica gli insegnamenti di Grotowski e di Barba, lasciando ferma la centralità del corpo dell'attore che, però, cerca presenze 'vere', identità non sostituite, storie reali. E' una tendenza a immergere il lavoro teatrale fra le presenze e le realtà del vivere, che accomuna esperienze apparentemente lontane come il 'teatro e narrazione' (Marco Baliani, Laura Curino, Marco Paolini)e il 'teatro degli esseri' di Pippo Delbono. Fra i documenti riguardanti il processo creativo, segnalo il contributo di Giuliano Scabia, uno dei protagonisti del "nuovo teatro" fin dagli anni della svolta: poeta, drammaturgo, uomo di teatro, romanziere e docente universitario del DAMS di Bologna fin dalla fondazione, Scabia analizza qui il mito di Dioniso, facendoci capire le radici del teatro e del suo teatro. Il saggio descrive un progetto di ricerca durato quattro anni e condotto nell'ambito dell'insegnamento di Drammaturgia 2, che, , come dimostra la testimonianza di Gianfranco Anzini, si è svolto in modo molto teatrale: "leggendo, traducendo, ballando, musicando, cantando, interrogando Baccanti e Rane". Le domande che Scabia si pone intorno a Dioniso sono ancora più interessanti per noi, in Ungheria, se pensiamo ai due spettacoli di Sándor Zsótér tratti dalle Baccanti di Euripide. Anche le sue sono versioni molto originali del mito di Dioniso.

"Ho fatto scoperte per me sconvolgenti.", scrive Scabia. "La domanda da cui sono partito è: come mai Dioniso è il capo del teatro (il mio capo, il nostro capo quando facciamo teatro)? Ho visto pian piano, in quattro anni, prendere un nuovo senso tutta la ricerca condotta nei corsi a partire dal '72/'73 - e non solo. Il correre dentro l'università con giovani straordinari quasi sempre nell'impegno e nell'intensità, stare con loro a leggere, studiare, mettere in corpo i testi meravigliosi del teatro, o costruirne con loro di nuovissimi, è entrato a far parte di tutto il mio lavoro più profondo."

Anche Leo de Berardinis, un altro protagonista della scena di sperimentazione italiana, è, come Scabia, un uomo di teatro completo: drammaturgo, intellettuale e grandissimo attore. Fra i suo spettacoli ricordo almeno Novecento e Mille "una sorta di affresco teatrale che unisce insieme Pasolini, Beckett, Majakovskij, Pirandello, Kafka, Eliot, scritti di Leo stesso ed altri materiali

Roberto Anedda nel saggio Il teatro come una composizione: la drammaturgia musicale nel lavoro di Leo De Berardinis, descrive il lavoro fatto intorno a The Connection, (1983), che "è piuttosto uno spettacolo jazzistico", e allo Lo spazio della memoria (Dante - Pasolini - Ginsberg) (1991) "un vero e proprio concerto di teatro-jazz" dove la voce dell'attore sviluppa fonicamente frammenti tratti dall'opera dei tre poeti. Lo studioso individua ne I giganti della montagna di Pirandello, uno dei punti di arrivo della ricerca di Leo sull'unità di teatro e musica. De Berardinis considera questo dramma, che a avuto una grandissima fortuna negli ultimi decenni essendo stato rappresentato da alcuni fra i registi più importanti del teatro italiano, un dramma atemporale del mito, "un tema musicale prosaico ed agghiacciante".

Fra i gruppi guida del nuovo teatro italiano, la Socìetas Raffaello Sanzio occupa un posto di primo piano: ne parlano i fondatori Romeo Castellucci e Chiara Guidi, sia nei loro contributi, sia nelle interviste. Il loro è un teatro di "quadri viventi in cui venivano fissati i loro stessi corpi: dalle pose da cui, successivamente, sarebbero scaturite le azioni." Lo studioso aggiunge: "Va subito detto che in queste "performance" la narrazione, sintetica, sarebbe intervenuta col tempo, restando sempre e comunque soggetta alla priorità dell'aspetto visivo."

Nel saggio La Valdoca e il viaggio verso Parsifal, Emanuela Dallagiovanna analizza l'itinerario artistico del teatro Valdoca; nella presentazione, Marco De Marinis dimostra che fin dall'esordio (1980) la Valodoca intende "costruire dei mondi" e non mettere in scena testi. Si potrebbe anche supporre, che il forte impatto visivo (certamente anche musicale), "la performatività", il rifiuto della dimensione "narrativa-rappresentativa" della Valdoca derivi dalla formazione dei due fondatori: sia Cesare Ronconiche Mariangela Gualtieri sono laureati in architettura. Ma il fatto è che il nuovo teatro in genere è stato modellato da artisti provenienti da esperienze extra-teatrali, che hanno saputo rinnovare lo spettacolo investendolo di significati e possibilità ulteriori. Un altro gruppo di forte impatto è Marcido Marcidorjs e Famosa Mimosa. Nella nota introduttiva Pier Giorgio Nosari afferma: "Uno spettro si aggira per la scena dei Marcido. Il suo nome è teatro: l'idea moderna di teatro, basata sui concetti di premeditazione e primato del testo, verosimiglianza, psicologia, controllo dei mezzi espressivi e medietà stilistica. Nello spazio ogni volta ricreato da Marco Isidori, regista e autore, e da Daniela Dal Cin, scenografa di eccezionale talento, ognuno di questi elementi è elegantemente eliso e, spesso, sottilmente deriso. Da questo punto di vista, Marcido Marcidorjs e Famosa Mimosa è uno dei gruppi che meglio ha raccolto il lascito delle avanguardie degli anni Sessanta-Settanta e espresso le esigenze degli anni Ottanta, in cui è nato."

Presentando Le Albe, Gerardo Guccini sottolinea l'aspetto autopedagogico di questa formazione - che ha anche esercitato un'importante influenza sulle nuove leve teatrali. Le Albe cercano una teatralità che rinnovi "l'attore, gli spazi, il pubblico, le drammaturgie e la natura stessa del fatto teatrale", una strada che, ricorda Martinelli, regista e drammaturgo del gruppo, è stata percorsa non senza conflitti: "C'erano molti scontri, belli e vitali, tra 'gli zoccoli e le scarpe da ginnastica': mentre la post-avanguardia era metropolitana, sesso, droga e rock and roll, azzeramentodella tradizione e confronto con l'immaginario televisivo, il Terzo Teatro cercava il rito, l'oriente, pochi spettatori per una relazione più vera, più viscerale. In questo scontro noi non ci riconoscevamo. Da una parte ci affascinava il senso di rigore che dava il Terzo Teatro, io leggevo Barba, Grotowski e li 'sentivo' anche a distanza come maestri. [...] Dall'altra parte, quello che ci colpiva della post-avanguardia era il confronto con la modernità, sentire il teatro in relazione all'oggi, che va preso così, coi suoi computer, la televisione, la società di massa."

Fabio Acca nella Premessa al saggio: Rino Sudano: un teatro "fuori scena", precisa, a proposito di questo artista restato intenzionalmente in disparte e sul quale si riaccende ora l'attenzione:

"La vicenda teatrale di Rino Sudano è uno di quei casi singolari in cui tutto un sistema di memoria sembra essersi inceppato. Protagonista di una delle stagioni teatrali più feconde per la ricerca teatrale italiana, quella nata a Roma negli anni Sessanta; autore di uno dei progetti più rigorosi di definizione politica del teatro in Italia, tra gli anni Settanta e Ottanta, con il suo Gruppo Quattro Cantoni; costantemente ossessionato dalla parola drammatica di Samuel Beckett; autore di testi labirintici, unicamente funzionali alla propria particolarissima dizione; teorico donchisciottesco del "teatro dell'essere", dell'"attore etico" e di un teatro ai confini delle necessità espressive e produttive. La sua è un'esperienza teatrale che ha attraversato la storia del Nuovo Teatro italiano con un'autonomia pressoché assoluta, ma che ha lasciato poche tracce nei luoghi deputati ad un legittimo riconoscimento."

Un altro maestro segreto del nuovo teatro italiano viene affrontato da Marta Porzio: Antonio Neiwiller, artista visivo e poeta della formazione dell'artista. Prematuramente scomparso, Neiwiller è stato insieme a Leo de Berardinis (che l'aveva voluto accanto a sé in molti suoi importanti spettacoli) uno degli maestri che più si è preoccupato di convertire in esperienza formativa l'approccio al teatro, che resta di per sé ineffabile e imprevedibile. Ora Neiwiller non c'è più e Leo dorme in un coma senza possibilità di risveglio, anche le loro assenze, come quelle di Beck e di Grotowski, tracciano soglie su cui fermarsi e riflettere.

Carlo Infante conclude la panoramica sul Nuovo Teatro, parlando di un suo progetto, volto a ricomporre la memoria e a riscattare "lo sguardo" dalla frammentarietà del presente col mezzo dell'ipertestualità, e mettendo on line (www.teatron.org) i frutti della ricerca. Procedimento giustificato dalle caratteristiche della ricerca teatrale. tra multimedialità e ricerca teatrale - dice Infante - non c'è solo un rapporto di elaborazione a posteriori ma un'attitudine complementare: il teatro sperimentale si è sempre caratterizzato per la sinestesia percettiva, ovvero per la simultaneità dei diversi linguaggi espressivi messi in gioco. Parola, azione, visione e suono interagiscono in una soluzione spettacolare che sollecita lo spettatore ad una disponibilità attiva e cognitiva.

L'avanguardia teatrale anticipò sul campo molte di quelle procedure che oggi si stanno standardizzando con l'avvento della multimedialità perché dimenticarlo?" conclude.

Sono senz'altro degni di nota i due interventi che chiudono il volume di Picchi, Della "Bella addormentata" di Rosso di San Secondo e la faccenda dei due finali, analizza l'opera di un autore poco ricordato ma meritevole di attenzione sia da parte del teatro che dal mondo degli studi.

Gioia Ottaviani tratta la dimensione transculturale e l'identità artistica del but ō che si realizza nel lavoro del performer. In questa danza il performer, infatti, "si spinge verso il confine della dissoluzione del corpo scenico, della narrazione interiore e dell'io stesso, quando questo si ostina a cercare la propria permanenza dirigendosi verso la forma."

Leggendo i bei saggi pubblicati in questo numero di "Culture teatrali" il recensore vorrebbe meglio conoscere gli spettacoli e le realtà di cui si parla, e anche per questo auspica che i rapporti fra il teatro italiano e quello ungherese si facciano più intensi e vitali sviluppando la linea di collaborazione e interesse reciproco di cui anche questa recensione č un momento indicativo.