L'ex segretario di stato di Clinton scettica
sull'opportunità di un nuovo conflitto nel golfo
ALBRIGHT
"La guerra contro Al Quaeda più importante dell'Iraq"
"Se Bush constaterà che il rapporto sull'arsenale iracheno
è menzognero sarebbe utile che spiegasse quali informazioni
possiede così che il mondo capisca la nostra posizione"
Intervista
Paolo Mastrolilli
NEW YORK
L'avevano soprannominata la dama di ferro della diplomazia americana,
con quelle spille a forma di aquila piazzate sulle giacche dei taileur.
E nonostante il sorriso gentile, Madeleine Albright conserva il
piglio dei giudizi decisi: attaccare Saddam adesso sarebbe un errore,
perché prima c'è da sgominare al Qaeda, e se Bush ha
davvero le prove del riarmo iracheno, deve tirarle fuori ora. La
incontriamo al Council on Foreign Relations, dove l'ex segretario
di Stato è venuta a presentare lo studio del Pew Research Center
sul calo della popolarità degli Usa nel mondo.
Il suo ex capo, Bill Clinton, dice che la guerra contro bin Laden
è più urgente dell'Iraq. Lei è d'accordo?
"La lotta contro il terrorismo è appena cominciata: c'è
molto da fare e non possiamo distrarci. Sono convinta che l'Iraq
è un pericolo e Saddam è terribile, l'ho ripetuto spesso.
Ma abbiamo buone possibilità di contenerlo con altri mezzi.
In questo momento, invece, dobbiamo preoccuparci di più di
al Qaeda, considerando anche che bin Laden è ancora vivo".
Oggi è atteso all'Onu il rapporto iracheno sugli armamenti.
Come dovrebbe reagire il governo americano?
"È molto importante svolgere un'opera di diplomazia dettagliata
e consultazioni, a cui l'amministrazione è arrivata in ritardo,
discutendo i prossimi passi. Io prevedo alcune settimane burrascose,
perché stiamo già sentendo differenze all'interno del
governo sul fatto se gli ispettori sono utili, e se quello che hanno
scritto è una bugia o no. Se l'amministrazione contesterà
il rapporto iracheno, sostenendo che Baghdad possiede armi di distruzione
di massa, sarebbe molto utile che spiegasse quali informazioni possiede,
per favorire tanto la diplomazia pubblica quanto quella privata.
Gli Stati Uniti sono una democrazia, e non è antipatriottico
chiedere questo genere di trasparenza. Anzi, domandarla è un
dovere patriottico, che aiuterebbe la nostra diplomazia all'interno
e all'estero, chiarendo perché stiamo facendo quello che
facciamo. Alcuni sostengono che la ragione è il petrolio: io
non lo credo, ma per dimostrarlo, le nostre motivazioni e azioni
devono essere più trasparenti".
Il presidente Bush dice che la guerra dipende da Saddam. Secondo
lei ci sarà lo scontro?
"Io invece penso che tutto dipenda da Bush. Non sono incline a
credere a Saddam o a Tareq Aziz, ma il modo in cui è stato
costruito il confronto viene descritto bene dal detto americano
secondo cui sei dannato tanto se fai una cosa, quanto se non la
fai, visto che qualcuno è alla ricerca della violazione materiale
della nuova risoluzione. Lo dico considerando la retorica utilizzata
finora. Vorrei sperare che ci fosse una maniera per evitare la guerra,
perché non abbiamo ancora riflettuto sulle sue conseguenze
non volute. Ma non possiamo contare su Saddam per aiutarci a questo
scopo, perché alla fine fa sempre qualcosa di stupido. Quindi
temo che siamo avviati verso la guerra, e tocca a Bush decidere
se vuole cedere o no ai membri della sua amministrazione, che sono
entrati nel governo con un'agenda predeterminata per fare qualcosa
in Iraq, prima ancora che l'intera questione del terrorismo cominciasse".
Quale impatto avrebbe la guerra sulla Nato e su alleati come l'Italia?
"La domanda centrale da porsi è quanto la Nato e gli alleati
verrebbero utilizzati nel conflitto. Ma nel recente vertice di Praga
uno dei fatti più interessanti è stato il sostegno offerto
da tutti i paesi membri".
La Turchia finora è stata molto prudente nell'appoggiare la
politica Usa in Iraq. Dipende dalla questione curda?
"In parte, perché teme che dopo la caduta del regime iracheno
la sua popolazione curda cerchi di unirsi con quelle degli altri
paesi, per costituire il mitico stato del Kurdistan. Ma la faccenda
è più complicata. La Turchia si trova in una posizione
critica tra Europa e Asia, è un paese islamico con istituzioni
secolari, e dopo la caduta dell'Urss è stata investita anche
da una serie di problemi nuovi riguardo la stabilità dell'Asia
centrale. Una parte della questione riguarda l'incertezza della
popolazione su come il fatto di essere musulmani e secolari si combini
col resto del mondo islamico, e poi c'è il terribile trattamento
che l'Unione Europea ha riservato alla Turchia, ad esempio con le
recenti dichiarazioni di Giscard d'Estaing, da cui mi aspettavo
di meglio. Il rifiuto che Ankara ha percepito dall'Europa è
stato umiliante, e si collega ad un'altra questione scottante come
l'immigrazione, con la grande forza lavoro turca di fronte alla
popolazione europea che invece continua ad invecchiare. Sta diventando
un problema razziale, e credo che ora Washington debba spingere
ancora di più affinché la Turchia abbia qualche forma
di accesso all'UE. Rispetto all'Iraq, però, l'elemento più
complicato è che stiamo chiedendo ad Ankara di fare qualcosa
per la possibile guerra, in termini di basi, accesso o spazio aereo,
in contraddizione diretta con i desideri della popolazione. La domanda,
quindi, è quante volte puoi spingerti su un terreno simile,
e quali problemi di lungo termine ti procuri chiedendo ad altre
nazioni di agire così. È un interrogativo chiave perché
il modello turco del paese islamico secolare è quello che vorremmo
esportare in tutta la regione, e invece la guerra all'Iraq promette
di far aumentare il già alto scontento della popolazione verso
l'America".
Lo studio del Pew dice che la popolarità degli Usa è
in calo. È colpa della retorica adottata negli ultimi mesi?
"La cosa essenziale è tornare alla diplomazia pubblica, cioè
trovare la maniera di diffondere un messaggio globale, quando devi
rivolgerti ad un'audience mista. Uno degli elementi che ha provocato
la dicotomia dipende dal fatto che quando il presidente Bush si
rivolge al pubblico interno, per unificare e incoraggiare tutti,
può dare l'impressione di un atteggiamento troppo macho all'estero,
perché oggi non si può più isolare il messaggio
domestico da quello internazionale. Quindi dobbiamo trovare nuovi
strumenti non per fare pubblicità al nostro paese, ma per diffondere
informazioni sulle nostre posizioni".
La vostra gente sta perdendo contatto col resto del mondo?
"Io credo nella bontà fondamentale dell'America e degli americani,
e non penso che ci sia un altro popolo più generoso. Resto
anche convinta del fatto che gli Stati Uniti sono la nazione indispensabile.
Il problema in questa amministrazione non è tanto che il nostro
potere viene usato in maniera unilaterale, ma unidimensionale, per
cui la bontà dei nostri propositi nell'affrontare problemi
come il divario tra ricchi e poveri, o le possibili cause del terrorismo
che facilitano il reclutamento da parte di al Qaeda, sfuggono o
vengono fraintese. Bisogna spiegare alla nostra gente perché
la politica estera non è una cosa estranea, e perché
ciò che accade alle altre 189 nazioni dell'Onu ha un effetto
su di noi. In America c'è un problema di presupponenza, che
si risolve chiarendo l'importanza del soft power e di usarlo
in collaborazione con gli altri paesi. E questo è un compito
che non riguarda solo le istituzioni governative".
La Stampa
7 dicembre 2002
IL NUOVO CONTINENTE
L'Unione europea cerca il compromesso
Quanto costerà l'allargamento a Est?
COPENAGHEN - Due sono gli ostacoli che i leader dell'Unione europea,
riuniti a Copenaghen, devono superare per il via libero definitivo
allo storico allargamento dell'Ue: da un lato l'entità dei
fondi da destinare ai nuovi Stati membri, tutti ex paesi comunisti,
dall'altro la complicata questione diplomatica della Turchia, che
chiede di essere ammessa già nel 2003 ai colloqui preliminari
di ingresso.
Le decisioni che usciranno dal vertice potrebbero ridisegnare i
confini dell'Europa ma, nello stesso tempo, suscitare malcontento
nei nuovi arrivati e compromettere l'appoggio delle popolazioni
che saranno chiamate ad approvare l'ingresso attraverso dei referendum.
La partita, che coinvolge in modo particolare la Polonia, il più
grande e per questo anche il più bisognoso dei paesi candidati,
si gioca sulla cifra che i 15 sono disposti a elargire per sostenere
i nuovi membri economicamente più arretrati: i dieci stati
candidati per il 2004 (Polonia, Ungheria, Repubblica ceca, Slovacchia,
Slovenia, Estonia, Lettonia, Lituania, Cipro e Malta), a cui si
aggiungeranno nel 2007 la Bulgaria e la Romania, chiedono uno stanziamento
di 42.5 miliardi di euro, quelli promessi per sostenere l'espansione.
Ma ora alcuni degli Stati che spendono di più, tra cui la Germania,
sostengono di non poter tenere fede all'impegno a causa della recessione
in atto. Il presidente di turno dell'Ue, il primo ministro danese
Anders Fogh Rasmussen, ha lanciato un appello ai leader dei 15 avvertendo
che la trattativa per superare le difficoltà andrà avanti
a oltranza. (reuters)
La Turchia si gioca tutto su Cipro
COPENAGHEN - Il nodo più diffìcile da sciogliere per
i leader dell'Ue è quello della Turchia: il paese, sostenuto
dagli Usa e dall'Italia, vorrebbe avviare i negoziati di ingresso
nell'Unione nel 2003, ma si scontra con la resistenza di chi non
la ritiene politicamente affidabile. In gioco, però, c'è
soprattutto la questione di Cipro, divisa dal 74 tra Grecia e Turchia.
Secondo il presidente turco, Ahmet Necdet Sezer, è in atto
un tentativo di scambio: una data per i negoziati in cambio della
soluzione della questione cipriota. (ansa)
Tra i nuovi arrivati cechi più euroscettici
I cechi sono i più euroscettici. Emerge da una statìstica
effettuata a novembre dalla Georg (Central European Opinion Research
Group) fra ungheresi, polacchi e cechi. Nella Repubblica ceca le
persone favorevoli all'Ue sono il 62,4% contro il 73,5% in Polonia
e il 73,5% in Ungheria. (ansa)
Pochi ungheresi lasceranno il paese
Gli ungheresi preferiscono il loro paese e sono resti agli spostamenti.
Mentre si discute dell'allargamento dell'Ue, una ricerca dell'Istituto
economico di Budapest evidenzia la staticità degli ungheresi,
"nonostante le buone capacità e l'ottimo rendimento sul lavoro".
(reuters)
La Lituania si candida a ponte con la Russia
La Lituania si propone all'Ue come ponte per rafforzare e stabilizzare
i legami con Ucraina e Russia. Il presidente Valdas Adamkus ha sottolineato
la necessità di non isolare l'Ucraina. Inoltre la Lituania,
indipendente dall'Unione Sovietica dal 1991, è oggi il secondo
partner economico della Russia, dopo l'Ue. (reuters)
CityRoma
13 dicembre 2002
IN PRIMO PIANO
G8, arresti tra i no global: "Devastarono Genova"
Emessi 23 provvedimenti, 13 di custodia cautelare. Il gip: in un
solo giorno 121 episodi di violenza, potevano ripetere i reati.
DAL NOSTRO INVIATO
GENOVA - C'è una vittima del G8 della quale si è sempre
parlato poco. Perché non ha un volto, un nome e un cognome.
È una città, si chiama Genova, con tutti i suoi abitanti.
Scrive il Gip Daloiso nell'ordinanza che dispone misure cautelari
per 23 persone: "Nel corso di quei fatti, la messa in pericolo dell'ordine
pubblico è stata gravissima, solo che si consideri il numero
e la portata degli episodi delittuosi di vario genere, che si sono
succeduti senza significative interruzioni, costellati da scontri
violentissimi, episodi che hanno messo a ferro a fuoco la città,
che ha vissuto una situazione di "guerriglia urbana" lesiva di ogni
diritto di sicurezza dei cittadini". È l'immagine di quei due
giorni del luglio 2001. Le 23 persone che ieri si sono viste bussare
in casa al mattino presto (nove sono in carcere, 4 agli arresti
domiciliari, ad altri 6 è stato notificato l'obbligo di dimora
e a 4 l'obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria), è
di questo che devono rispondere. Sono accusati di devastazione e
saccheggio. Di un unico bene, una città. Ogni singola persona
ha contribuito per conto suo a sfregiare il volto e l'anima di Genova.
I magistrati Anna Canepa e Andrea Canciani, in silenzio, sopportando
critiche ingenerose - l'eccesso di esuberanza dei pm di Cosenza
come contraltare del loro (presunto) immobilismo - hanno contato
quelle ferite, una ad una. Ed è un documento che fa impressione,
nella sua concisione rende l'idea del furore di quei giorni. Il
20 luglio, giorno della morte di Carlo Giuliani, vi furono 121 episodi,
che iniziano con la devastazione degli uffici del Credito italiano
e proseguono con incendi di auto, edifici, negozi. Il giorno dopo
"la città aveva riportato ulteriori gravissimi danni". Altri
95 episodi, "facendo cenno solo ai più rilevanti". La scelta
della Procura di Genova è stata chiara. Lavorare sui singoli
reati, commessi da singole persone. Per un motivo che ieri è
stato spiegato dal procuratore aggiunto Giancarlo Pellegrino: "Per
dimostrare che vi fu un piano preordinato, messo in atto da un gruppo
organizzato, e quindi ipotizzare reati di tipo associativo (come
è stato fatto a Cosenza, ndr), bisogna trovare legami
stabili tra le persone, prove dell'esistenza di un "patto" e di
una regia. Abbiamo ritenuto inutile dimostrare scenari indimostrabili".
Nell'ordinanza si parla ovviamente anche di Black bloc ("Anarchici
o presunti tali che si stavano preparando alla guerra"). Organizzati,
istruiti sulla geografia della città, sapevano come muoversi.
Ma è impossibile non solo provare il loro collegamento, ma
anche procedere alle singole identificazioni. Il conto ci ha messo
un po' ad arrivare, ma è salato. L'esecuzione delle 23 misure
cautelari, coordinata dalla Digos di Genova, riguarda esponenti
(a vario titolo) del mondo no global. Ci sono quelli ai margini,
come Luca Finotti, Massimiliano Monai, Eurialo Predonzani (l'unico
irreperibile), le tre persone accusate di tentato omicidio (contro
i carabinieri che stavano nella camionetta) nell'inchiesta sulla
morte di Carlo Giuliani. E poi esponenti dell'area anarchico insurrezionalista
(che nulla a che fare con il movimento). Ma c'è anche Francesco
Puglisi, leader dei no global catanesi, Federico Da Re, ex Tuta
bianca, stesso centro sociale di Luca Casarini, Marina Cugnaschi,
animalista lecchese. Nell'ordinanza e nella richiesta d'arresto,
però, non c'è una singola riga di giudizio sui no global
nel loro insieme. Solo uno sterminato elenco di fatti circostanziati.
Un metodo di lavoro che il Gip riassume così: "Sono stati singolarmente
indicati gli episodi contestati e gli elementi costituenti a carico
di ciascuno gravi indizi di colpevolezza, ricostruendone la condotta
nei giorni degli scontri quale risulta dalla documentazione filmata
e fotografica e dalle testimonianze". Tutto qui. C'è un capitolo
di 15 pagine che è la ricostruzione fedele degli avvenimenti
di quei giorni. I movimenti dei Black bloc, da piazza Da Novi, ore
11, fino alla fine. Le cariche, il corteo delle Tute bianche, piazza
Alimonda, e il giorno dopo la battaglia sul lungomare e alla Foce.
Ogni spostamento, ogni rivolo di corteo. Un documento quasi definitivo.
Anche tra i 23 vengono fatte distinzioni, a seconda della gravita
dei loro gesti. Da quelli che hanno iniziato a spaccare tutto dal
mattino, a chi ha combattuto in via Tolemaide e piazza Alimonda,
dopo le cariche dei carabinieri. Le esigenze cautelari sono state
motivate con il pericolo che i reati fossero reiterati. Resta la
scelta di tempo. Poco dopo la fine dell'inchiesta sulla morte di
Carlo Giuliani, e la scarcerazione dei no global arrestati dalla
Procura di Cosenza. Le richieste dei pm erano arrivate a metà
giugno, il Gip ha deciso il 2 dicembre. E proprio ieri il procuratore
reggente Francesco Lalla ha annunciato di aver depositato la richiesta
di archiviazione per i 93 arrestati durante il blitz alla Diaz.
Pare una specie di risarcimento per i no global. Non è così,
dice Lalla. "È un caso. I tempi per queste misure cautelari
sono stati dettati anche dal Gip, che doveva esaminare una mole
di materiale enorme. Il nostro obiettivo è chiudere le inchieste
G8 entro l'anno". L'inchiesta sui reati di strada fatta da Canepa
e Canciani è un altro tassello nella costruzione della storia
di quei giorni. Non è finita, gli indagati sono più di
100. Ma il più è fatto. Per rendere giustizia a Genova:
"Città risparmiata in pochissime zone, con danni miliardari
- scrive il Gip - dove ci sono state condotte lesive del superiore
interesse della collettività alla tranquillità e sicurezza".
E a guardare la lista degli episodi accaduti in strada, c'è
chi in Procura sostiene una tesi non troppo paradossale: sembrerà
assurdo, ma in quei giorni poteva anche andare peggio.
Marco Imarisio
Corriere della Sera
5 dicembre 2002
ECONOMIA
La crisi dell'auto
Fiat e concorrenti: dove nasce il ritardo
L'analisi di Riccardo Gallo sul declino del Lingotto: tra le cause
riduzione degli investimenti e incentivi alla clientela
DAL NOSTRO INVIATO
BOLOGNA -
"La crisi della Fiat non è solo congiunturale ma anche e soprattutto
strutturale", ha ripetuto ieri al Motor show il ministro delle Attività
produttive, Antonio Marzano. Del resto, che le difficoltà in
cui si dibatte da tempo il Lingotto siano dovute anche in. buona
parte a errori manageriali del passato lo hanno ammesso in tanti,
con varie sfumature e intensità: dallo stesso Umberto Agnelli,
principale azionista di Fiat, all'assemblea di Ifi dello scorso
maggio fino a Silvio Berlusconi con affermazioni pepate che hanno
provocato un'immediata reazione da parte della stessa azienda proprio
alla vigilia della sigla dell'accordo - tra il Lingotto e il Governo
- sulla cassa integrazione straordinaria. Troppe vendite a chilometri
zero che fanno quote ma non utili; un eccessivo indebitamento; minori
investimenti in ricerca e sviluppo rispetto ai concorrenti: su Fiat
si è scatenata da tempo la caccia agli errori con una montagna
di parole e anche di veleni. Ieri a Bologna, nel corso del convegno
sull'industria dell'auto. Riccardo Gallo, professore di economia
industriale alla Sapienza di Roma, ha presentato una ricerca in
cui cerca di mettere a fuoco, con cifre e raffronti di mercato,
il perché della crisi. Gallo parte da alcune osservazioni
generali per poi vedere come Fiat si sia strategicamente comportata
al riguardo. Ne esce una diagnosi tanto severa quanto documentata.
Meno investimenti. L'innovazione tecnologica accorcia la vita
utile media del patrimonio tecnico (per comodità indicato Vu)
che necessita quindi di un rinnovamento più veloce rispetto ad
altri periodi del passato. Fiat auto si mostra in linea se non migliore
dei suoi competitors stranieri fino a tutto l'esercizio 1997 che vede
il punto più basso della Vu con 12,5 anni rispetto a 15,5 del
'93. Ma da allora in poi tale cifra è cominciata a salire e nel
giro di un biennio era già passata a 16 quando invece la media
delle altre multinazionali dell'auto era scesa a 11,5. Di pari passo
i nuovi investimenti sono calati dai 2,6 miliardi di euro del '93
a 1,3 nel '97 per poi salire di poco a 1,4 e a 1,5 nei due esercizi
successivi. In rapporto alle immobilizzazioni tecniche lorde la percentuale
di nuovi investimenti è scesa dal '97 in poi al 7% dal 20% del
'92. Anche allora la Fiat non stava andando bene, ma tutti ricordano
come l'Avvocato Agnelli, che era ancora alla presidenza, disse che
in quell'anno l'azienda aveva fatto investimenti al limite del temerario.
Incentivi pericolosi. I prestiti ai clienti, soprattutto
se a tasso zero: è questa la seconda osservazione generale
di Gallo applicata all'industria automobilistica - che come è
noto è una delle maggiori protagoniste del credito al consumo
- appesantiscono il capitale circolante e dilatano l'indebitamento
finanziario a breve. E Fiat Auto ha visto schizzare sempre più
in alto, pericolosamente, il proprio indice che fotografa l'entità
di incentivi finanziari sulle vendite e che viene fissato dal rapporto
tra crediti finanziari e fatturato netto. Tale rapporto che era
appena dello 0,5% nel '93 si è dilatato fino a toccare il 25%
nel 2000. Gallo non cita le vendite a chilometri zero ma il balzo
dovrebbe essere l'effetto su larga scala di tale pratica che la
nuova gestione di Giancarlo Boschetti ha praticamente interrotto.
Anche se nel 2001 vi è stato un alleggerimento dei prestiti
a tasso zero, le patologie emerse a partire dal '97 si sono ulteriormente
aggravate, compiici la dinamica tecnologica rallentata e l'esplosione
dei debiti finanziari. L'indice di indebitamento, dato dal rapporto
tra debiti finanziari e capitale netto, è salito - osserva
Gallo - dallo 0,9 del '94 fino al 7,9 del 2001. In pratica, se nel
'94 la Fiat auto aveva 90 lire di debito per ogni 100 lire di mezzi
propri, otto anni dopo il rapporto si è del tutto capovolto:
per ogni 100 lire di mezzi propri ve ne sono 790 prese a debito.
Troppi debiti. Eccessivi debiti finanziari rispetto al capitale
di rischio - è la terza osservazione fatta da Gallo - penalizzano
il risultato economico. Ed è un effetto sotto gli occhi di
tutti con il bilancio del Lingotto in profondo rosso e in particolare
con Fiat Auto ad aver perso circa 4 miliardi come risultato netto
nel triennio 2000-2002. Prendendo l'indice di redditività dei
maggiori costruttori di auto si vede che nel 2001 Fiat è stata
negativa per 2,2% come del resto anche General Motors (-0,9%). Al
contrario Peugeot (6,5%), Volkswagen (6,1%), Renault-Nissan (1,9%)
e' la convalescente Chrysler (1%) erano ben posizionate in territorio
positivo.
Tagli e innovazione. Solo Ford, tra i big, ha fatto peggio
di Fiat e Gm con una redditività negativa misurata dal Ros
(Return on sales) pari al 5,7% contro il 3,7% positivo del 2000.
E questo malgrado Ford abbia ridotto, chiudendo 5 impianti, la produzione
del 16% e l'occupazione del 10%. Più efficace è stata
l'analoga operazione portata a termine da Nissan e Chrysler, che
hanno tagliato, rispettivamente, l'occupazione del 12% e del 14%.
Come si vede la strada dei tagli che Fiat ha imboccato tra polemiche
e tensioni resta - fino a prova contraria - la ricetta universalmente
più diffusa tra le case d'auto in crisi, anche se poi tale
terapia diventa veramente efficace solo si accompagna a un forte
salto di innovazione nel prodotto, nel marketing e nella commercializzazione.
I primati Ferrari. Come corollario alla sua ricerca, Gallo
ha fatto un confronto tra Fiat e la sua controllata Ferrari: un
parallelo giudicato dai presenti a Bologna piuttosto ardito - non
solo per dimensioni e obiettivi diversi - ma è servito a mettere
in rilievo, con le performance da primato di Ferrari, alcuni altri
handicap del Lingotto. Ad esempio, è stato rilevato che solo
"solo il 10% del valore delle auto Fiat viene dall'interno dell'impresa.
Per Ferrari tale cifra, che è poi il valore aggiunto, è
pari al 25 per cento". E ancora: ogni dipendente Fiat Auto genera
39mila euro di valore all'anno, uno della Ferrari 180 mila. E se
la Fiat è fortemente indebitata, in particolare l'Auto, Ferrari
può esibire un rapporto del tutto brillante: solo 3 euro di
debiti per ogni 10 euro di capitale netto di rischio.
A. BER.
Il Sole - 24 ore
8 dicembre 2002
ECONOMIA
Bruxelles: l'economia dell'area euro potrebbe contrarsi all'inizio
del 2003. In Usa accelera la produttività
"L'Italia frena ancora, ripresa rinviata"
Per Confindustria quest'anno la crescita si fermerà allo 0,4%,
deficit verso il 2,6%
ROMA - Una crescita modesta, non più dello 0,4% del pil per
il 2002 e dell'1,4% nel 2003 che si conferma come "anno di convalescenza".
La Confindustria, nelle sue ultime previsioni, non vede affatto
rosa. E trova conferma nei dati diffusi da Bruxelles: nell'ultimo
trimestre dell'anno l'economia crescerà solo fra lo 0,2 e lo
0,5% mentre all'inizio del 2003 potrà passare anche in zona
negativa tra meno 0,2% e più 0,2%. Le stime sul disavanzo pubblico
realizzate dall'ufficio studi dell'associazione degli imprenditori
sono peggiori di quelle del governo: 2,6% del prodotto interno lordo
nel 2002 e 2,3% l'anno prossimo. A questo si aggiungono la crisi
dei consumi, il clima di scarsa fiducia acuito anche dalle difficoltà
della Fiat, l'incognita della devolution che sembra destinata ad
aggravare i conti pubblici e l'inflazione il cui divario con il
resto d'Europa è sempre più evidente. Unica nota positiva
l'esclusione di una manovra aggiuntiva. E il presidente degli industriali
Antonio D'Amato è tornato a chiedere con insistenza un'accelerazione
delle riforme del mercato del lavoro, del fisco e delle pensioni.
"La crescita è più bassa di quella prevista dall'esecutivo
- ha detto D'Amato - e dobbiamo fare chiarezza se questo è
un Paese a declino industriale o se è solo un declino competitivo".
"È più probabile che la ripresa sia solo rinviata. Ma
dobbiamo aspettarci una situazione altalenante per diversi mesi",
ha sottolineato Vittorio Mincato, consigliere incaricato per il
Centro Studi della Confindustria.
MALE UE, BENE USA - I dati diffusi ieri dagli economisti
del commissario europeo Pedro Solbes denotano una forte contrazione
dei consumi rilevata dal calo delle immatricolazioni delle automobili
e della fiducia nelle vendite al dettaglio. Negli Usa invece gli
ordinativi dell'industria sono tornati a crescere dell'1,5% (meno
però delle aspettative) a fronte del calo di settembre pari
al 2,3%. Meglio ancora la produttività del lavoro che nel terzo
trimestre è stata rivista al 5,1% contro la precedente stima
del 4%.
L'ASSENZA DI TREMONTI - II tradizionale intervento del ministro
dell'Economia era stato confermato fino a poche ore prima, ma non
c'è stato. E D'Amato non ha mancato di sottolineare l'assenza
stigmatizzando che gli "sarebbe piaciuto ascoltare Giulio Tremonti
perché ci avrebbe sicuramente aiutato a capire, evitando
i rischi di polemiche sulla stampa sulle nostre previsioni economiche".
Che non sono "né ottimistiche, né pessimistiche ma
realistiche". Tremonti non ha risposto, nemmeno nel pomeriggio impegnato
com'era a risolvere i rebus della Finanziaria e a rispondere a un
question time alla Camera. In soccorso è arrivato il sottosegretario
Vito Tanzi secondo il quale la stima del 2,6% gli sembra "un po'
alta" e, comunque, è "sempre difficile fare previsioni azzeccate".
MANOVRA NON CHIARA - L'estensore del rapporto confindustriale
Giampaolo Galli ha criticato la manovra del governo sostenendo che
all'appello mancano 3-4 miliardi di euro. "Ci sono troppi elementi
di incertezza - ha detto - e secondo la tabella della relazione
tecnica la manovra netta ammonta a 9,6 miliardi di euro contro i
13 al netto degli sgravi fiscali previsti dalla Finanziaria". Una
differenza che sia Bankitalia che Isae hanno classificato come "risparmi
vari" ma che "in realtà non è mai stato chiarito a quali
interventi si riferiscano".
LE CRITICHE - Per l'economista Daniel Gros, invitato da
Confindustria a parlare dell'Italia, il governo dovrebbe essere
"molto cauto ad abbassare le tasse senza prima aver tagliato le
spese". E ha lanciato un velato allarme sulla scarsa riduzione del
debito pubblico italiano. Enrico Letta, responsabile economico della
Margherita, facendo ricorso a lucidi e grafici ha dimostrato come
l'Italia si stia allontanando dai parametri europei e ha paventato,
usando una metafora, una fine alla "Swiss Air". Infine il presidente
Consob Luigi Spaventa ha criticato la riforma della corporate governance
perché "non aiuta le imprese a fare il passo verso la quotazione".
Si è lamentato dei tempi lunghi della giustizia e del controllo
da parte di gruppi quotati dei mezzi di informazione.
Roberto Bagnoli
Corriere della Sera
5 dicembre 2002
I FATTI DELLA VITA
"Ascoltare i bambini per farne adulti migliori"
II rapporto Unicef racconta l'infanzia trascurata
CITTÀ DEL MESSICO - Per migliorare il mondo politici, genitori
ed educatori dovrebbero ascoltare di più i bambini e sopprattutto
prendere sul serio le loro opinioni. Dall'educazione, all'Aids fino
alla guerra - problemi che il più delle volte li toccano da
vicino - spesso hanno loro la chiave di lettura giusta dei problemi.
La raccomandazione è contenuta nel rapporto 2003 dell'Unicef.
Da una serie di indagini condotte per tre anni tra 40mila bambini
di quattro continenti, emerge che i più piccoli non hanno fiducia
nelle istituzioni politiche: non credono nel voto come strumento
per cambiare le loro vite e non guardano ai leader politici come
a dei modelli. Questa sfiducia, secondo l'Unicef, è una conseguenza
del loro mancato coinvolgimento nelle decisioni che li riguardano
da vicino e di un ristretto accesso all'educazione. Se non cambiamo
atteggiamento, se non trasmettiamo ai bambini i valori democratici
e non diamo loro più voce, prosegue il rapporto, rischiamo
di trovarci presto in un mondo "di giovani adulti che non sapranno
esprimersi, dialogare in modo costruttivo, assumersi responsabilità
né per se stessi né per gli altri". Non per nulla
la parola d'ordine del rapporto è "dialogo intergenerazionale".
I bambini sono una fonte preziosa di idee innovative per combattere
piaghe come quella dell'Aids, per incentivare l'educazione e, non
ultimo, per prevenire azioni terroristiche. "Se abbandonati a loro
stessi, i bambini crescono senza educazione e rischiano di diventare
giovani disperati, senza lavoro, facile preda del terrorismo" spiega
Carol Bellamy, direttore esecutivo dell'Unicef . "Se invece li rendiamo
partecipi delle possibili soluzioni di problemi che li riguardano
- prosegue - cresceremo giovani rispettosi e preoccupati sia dei
loro diritti che di quelli degli altri". E i problemi che toccano
i bambini da vicini nel mondo sono tanti. Nei paesi in via di sviluppo
50 milioni sono malnutriti, 120 milioni non vanno a scuola, 180
milioni sono vittime del lavoro minorile. Dal 1990 a oggi più
di 2 milioni di bambini sono stati uccisi, 6 milioni sono stati
gravemente feriti nel corso di guerre, mentre 14 milioni di bambini
sotto i 15 anni hanno perso almeno uno dei due genitori per colpa
dell'Aids. Ogni giorno 6.000 giovani vengono uccisi dal virus. (reuters,
ap)
CityRoma
13 dicembre 2003
Le mille leggende della Bora quel vento che
ruba l'anima
di Paolo Rumiz
Quando è gentile ruba i cappelli e alza le gonne ispira canzonette
e fa ammattire la psiche
Il poeta Slataper scrisse: "È il tuo respiro fratello gigante"
Chissà se i giocatori della Roma che ieri hanno affrontato
la Triestina in casa sua in una serataccia di vento, sapevano, prima
di entrare in campo, che il 15 febbraio del '53 la squadra di casa
battè per due a uno la Juventus di Boniperti e Hansen in un
giorno di bora a 140 che gelò i polpacci della Vecchia Signora.
D'Alema, raccontano, uscì giallino di carnagione dalla barca
che due anni fa gli fece correre la Barcolana con una bora indemoniata.
Alla boa di Miramare, la penultima, il vento prese gli scafi di
testa sul fianco sinistro e li annegò di spruzzaglia gelata
come il Mare Artico tra la Scozia e le Isole Ebridi.
Ai forestieri bisogna spiegarlo ogni volta daccapo. C'è il
vento e c'è la bora. Il vento, dice Stendhal, è quando
"si è costantemente occupati a tenere stretto il cappello".
Bora è quando "si ha paura di rompersi un braccio". La bora
desertifica strade, affonda barche, scoperchia case, rovescia treni,
sradica alberi, sbriciola tegole e staccionate, trasforma i moli
in banchisa e gli alberi in foreste di cristallo, prende di petto
gli aerei e li fa atterrare da fermi come aquiloni.Quand'è
gentile, si limita a rubare cappelli, a far volare ombrelli, alzare
gonne e gonfiare pastrani.
Così succede che quando torna, lei non si limita a rimettere
le cose a posto, come ha fatto ieri, chiudendo i conti con uno schifoso
autunno monsonico. Fa di più: racconta una leggenda. E proprio
ieri, col vento di Nord-est che ha scosso a 130 orari quest'angolo
matto di Mediterraneo, è arrivato "Il libro della bora", di
Corrado Beici. Un libro che costruisce, sulla città "cara al
cuore" ma lontana dalla Capitale, uno zibaldone di storie stupefacenti.
Durissimo mettere la bora in un libro, ti scappa da tutte le parti.
Argomento che non si lascia acchiappare: deborda nella geografia,
sconfina nella storia, sibila storie e canzonette, alimenta manuali
di botanica e meteorologia, si infila nelle chiacchiere da caffè,
fa ammattire la psiche, provoca e toglie le depressioni, ripulisce
l'aria dalle pestilenze, gonfia vele e mitologie con la stessa incredibile
disinvoltura. Impossibile costruire su questo vento una storia organica.
Devi rassegnarti a rincorrerlo. E prenderlo talvolta per la coda.
Le legioni impararono presto a fare i conti con la bora. Nel 394
l'imperatore romano d'Oriente, Teodosio, battè l'usurpatore
d'Occidente Flavio Eugenio e poté riunificare per pochi mesi
l'impero, grazie al vento che venendo da dietro raddoppiò la
portata dei suoi giavellotti. Vinse il buon Teodosio e gioì,
ma quella stessa bora lo uccise poche settimane dopo, con una polmonite
presa sul campo di battaglia, nella valle del Vipacco, sulla storica
soglia di Gorizia dove da millenni si scontrano i popoli e i venti.
Che storie. Come quella di Fouché, il fosco poliziotto di
Napoleone che a Trieste concluse la sua esistenza terrena e la cui
bara fu rovesciata con il carro per una raffica di bora e neve.Fu
così che, in una sera tempestosa, l'ex ministro della polizia
napoleonica, l'uomo disprezzato da tutti, "scese tra le ire del
cielo nei riposi eterni della tomba". Succede così, la bora
è la bora. "La bora - scriveva Scipio Slataper - è il
tuo respiro, fratello gigante".
Essere triestini non è solo un'origine geografica. È
una categoria dello spirito. I triestini sono una razza inquieta
di esploratori di bettole e grandi spazi aperti. In entrambe le
direzioni, la bora da loro la spinta determinante, li obbliga a
trovar rifugio al chiuso di una taverna piena di fumo, ma li invita
anche al viaggio, ripulisce l'orizzonte e lo propone come meta.
"Quando vidi il mare pulirsi - racconta Scipio Slataper - e sentii
fremere intorno a me l'aria, giungendomi alla pelle un piacevole
frizzo e alle nari un fresco e leggero odore di sassi e di pini,
allora capii cos'era. Nasceva la bora".
È un vento solido, quasi liquido. È alta poche decine
di metri. Si forma nel vallone fra Trieste e Lubiana, si comprime
come un proiettile nelle lande sotto il monte Nevoso, poi se ti
becca son dolori. Devi aggrapparti all'erba secca per non volare
come un vecchio barattolo. Talvolta comincia con un ululo cupo e
la pioggia, poi il fischio diventa una nota continua, sempre più
bassa. Allora la temperatura scende, impercettibile, ma regolare.
I friulani ne hanno paura, la chiamano "Vent sclàf", vento
slavo, facendo del vento una metafora demografica, simbolo della
massa nomade e bellicosa che preme sulle pianure padane e dintorni.
Il poeta triestino Umberto Saba amò la bora scura, quella
che spacca tutto col cielo nero. Odiò invece quella solare,
artica. "Conosco la bora, chiara e scura, la detesto quando scende
fuori misura con cielo sereno. Amo l'altra che ha una buia violenza
cattiva". E aggiunse: "Io devo recuperare la bora / oppure qui affondare
/ nel mio paese natale / nella mia triste Trieste / nella mia Trieste
triste / che amare è impossibile / e odiare anche".
E Tomizza, il poeta istriano di "Materada". La bora, scrisse, "porta
ognuno a ritrovare una parte di se stesso rimasta immutata dai giorni
dell'infanzia, e nel contempo uguaglia tutti, rendendoli anche solidali
fra loro, fedelmente attaccati a questo unico e composto margine
di terra che ogni tanto, con la bora appunto, dichiara la sua assolutezza
e la sua irripetibilità".
Cos'è? Un vento continentale freddo e secco che scende con
violenza dall'altopiano carsico al mare.
Bora chiara e Bora scura
Bora chiara (simpatica) - anticiclonica, col cielo sereno
Bora scura (antipatica) - ciclonica, con pioggia e nevischio. Arriva
quando c'è una depressione sulla penisola italiana.
Dove nasce? La sue gestazione avviene in un catino più grande
di mezzo continente. Nelle aree di alta pressione, le zone fredde
dell'Europa centrorientale.
Il fratello gemello: l'Oroshi soffia a sud-ovest di Tokyo e nasce
dall'altopiano del Tibet.
Ogni capitale della Bora (Trieste, Aidussina, Senj, Fiume) ha i
suoi luoghi record dove vengono fissati sui marciapiedi i paletti
con le corde per i passanti.
Il sito [w] www.museobora.org
- tutto sulla Bora e il museo dei venti.
La Repubblica
5 dicembre 2002
In una commedia mai terminata e rimasta
inedita, Curzio Malaparte metteva in ridicolo la megalomania di
Adolf Hitler
Un dittatore in paradiso
di Curzio Malaparte
"L'arcangelo Gabriele? Che vorrà mai da me? Avete informato
il nostro ambasciatore a Roma?"
"Noi non abbiamo ministri. È Dio che fa tutto. Il Regno del
Cielo è uno Stato totalitario: come il vostro."
SCENA PRIMA
La grande sala della Wilhelm-strasse, in Berlino, dove lavora Hitler.
A destra dello spettatore, con le spalle volte a chi guarda, Hitler
è seduto davanti a un grande tavolo sgombro di carte. In piedi
innanzi a lui, dall'altra parte del tavolo, è un segretario
in divisa nazi, nera.
Segretario - No, non c'è altro di nuovo, stamani. Anche
stamani è venuto, Mein Führer. È di là, in anticamera.
Aspetta.
Hitler - Ancora? Ma non è stanco di aspettare? Sono
quindici giorni che aspetta. Ci vuole una bella costanza.
Segretario - Dice che può aspettare. Che aspetterà
un secolo, se occorre.
Hitler - Potessi aspettare anch'io, un secolo!
Segretario - Dice che non se ne andrà, se prima non
vi ha visto e parlato.
Hitler - Che specie d'uomo è?
Segretario - Non è un uomo è proprio un angelo.
Hitler - Ah! E quale specie d'angelo?
Segretario - A giudicare dalle sue grandi ali, e dalla sua
aria superba, altera si direbbe un Arcangelo.
Hitler - Ha proprio le ali? Due vere ali?
Segretario - Due vere ali, immense, che gli scendono dalle
spalle fin quasi ai piedi. Le penne lucenti, argentee e d'oro. Un
vero Arcangelo. Una strana luce emana dal suo viso e dalle sue mani.
Hitler - Chi potrà mai essere?
Segretario - L'ho interrogato con discrezione. Mi ha detto
di essere l'Arcangelo Gabriele.
Hitler - L'Arcangelo Gabriele! Che vorrà mai da me?
Ve lo ha detto?
Segretario - Non ha voluto precisare lo scopo della sua
visita. Dice che ha cose molto importanti da comunicarvi da parte
del suo Führer.
Hitler - Verrà forse ad annunziarmi qualche buona notizia.
È un pezzo che non ricevo buone notizie. Avete informazioni
su questo personaggio?
Segretario - Sì. La Direzione generale della Polizia
mi ha comunicato proprio stamane il risultato delle sue indagini.
(Tende al Führer un foglio di carta scritto a macchina)
Hitler - (leggendo). Le informazioni sono ottime, ma poco
precise. Gabriele. L'Arcangelo Gabriele. Si assicura che si tratta
proprio dell'Arcangelo Gabriele. Avete informato di questa strana
visita il nostro ambasciatore a Roma?
Segretario - Sì, Mein Führer. L'ambasciatore se
ne è interessato personalmente in un colloquio privato col
Cardinale segretario di Stato. La Santa Sede non può dare nessuna
seria garanzia sull'identità personale dell'Arcangelo Gabriele,
perché gli Angeli non dipendono dall'amministrazione della
Città del Vaticano. Il Cardinale segretario di Stato ha anche
aggiunto, in via del tutto confidenziale, che la Santa Sede non
vede di buon occhio questo diretto intervento della Provvidenza
presso Vostra Eccellenza. Tutto ciò che concerne gli affari
politici fra Dio e un qualunque Stato deve passare attraverso il
tramite della Chiesa. Su questo argomento pare che il Santo Padre
sia molto suscettibile.
Hitler - Io non posso, d'altra parte, rifiutare un'udienza
all'ambasciatore straordinario di uno Stato, col quale il Reich
intrattiene relazioni di buon vicinato. Che lingua parla?
Segretario - II tedesco, un tedesco perfetto. Con un lieve
accento inglese, però. Forse Gabriele è un arcangelo di
origine inglese.
Hitler - Non mi stupirebbe. Gli inglesi son capaci di tutto.
Vi ha detto che cosa vuole da me? Quale sia lo scopo della sua visita?
Segretario - Dice che è cosa riservata.
Hitler - Fatelo entrare.
Segretario - Mein Führer, mi permetto di osservare,
di pregarviù
Hitler - Avete forse paura per la mia persona?
Segretario - Non si sa mai, forse conviene non fidarsi troppo.
Può essere pericoloso. Può avere qualche brutta intenzione.
Hitler - Fatelo entrare. Non ho paura degli Angeli.
Segretario - (esce, inchinandosi).
SCENA SECONDA
Gabriele - (entra dalla porta di fondo: è un vero Arcangelo,
vestito di un mantello bianco. Alto, magro, i lunghi capelli biondi
gli ricadono sulle spalle in morbidi riccioli d'oro. Ha le sopracciglia
azzurre. Due immense ali gli palpitano lungo la schiena. Cammina
lievemente, come se non toccasse il pavimento. Si ferma davanti
al tavolo, a qualche passo di distanza. Solleva il braccio destro
nel saluto nazista). Ave, Hitler.
Hitler - (si alza e risponde al saluto tendendo il braccio
destro) Sedetevi, vi prego.
Gabriele - Vi ringrazio molto di avermi accordato questo
colloquio. Avrei potuto entrare senza farmi annunciare, senza farmi
vedere, dai vostri uscieri. Apparirvi all'improvviso davanti al
vostro tavolo, in una rosa di luce. Ho preferito, con voi, non ricorrere
ai miracoli.
Hitler - Apprezzo il vostro tatto. Ve ne sono grato. Voi
sapete che i miracoliù
Gabriele - Sì, naturalmente, so che i miracoli sono
puniti dalle leggi del Reich. Non volevo, d'altra parte, aver l'aria
di visitarvi in segreto. Il mio Führer non ha nessuna ragione
per tener segreta questa mia visita.
Hitler - Credevo che la vostra visita fosse del tutto personale.
Non immaginavo che Dio vi mandasseù
Gabriele - No, io non sono che un ambasciatore.
Hitler - È il vostro ministro degli Esteri che vi manda
a me?
Gabriele - Noi non abbiamo Ministri. È Dio che fa tutto.
Il Regno del Cielo è uno Stato totalitario: come il vostro.
Hitler - Ciò che mi dite m'interessa in sommo grado.
E avete anche voi unù
Gabriele - ùun Führer? Certamente. Ma è appunto
la nostra organizzazione che costituisce l'argomento della mia visita.
Il nostro Führer ha pensato che forse una maggiore conoscenza
della nostra organizzazione statale potrebbe giovare a voi, agli
uomini, nella loro opera di governo. E ha pensato che forse voi
non.rifiutereste di compiere un breve viaggio nell'aldilà,
per rendervi conto di persona dei benefici della organizzazione
divina della società.
Hitler - Non capisco il senso reale delle vostre parole.
Un viaggioù dove?
Gabriele - In Paradiso. Voi sareste il primo uomo che, da
vivo, abbia avuto il sommo privilegio di visitare il Cielo, e di
tornar poi sulla terra a giovarsi dell'esperienza.
Hitler - Siete sicuri che il Santo Padre, il vostro Vicario,
non se ne avrebbe a male? Benché non sia intenzione mia criticare
o discutere la politica della Chiesa, debbo dirvi che non è
sempre facile, per noi, vivere d'accordo col Santo Padre.
Gabriele - La politica della Chiesa ha le sue esigenze,
purtroppo sono esigenze umane. Ma forse voiù
Hitler - Ho fatto di tutto, in questi anni, per mettermi
d'accordo col Sommo Pontefice, per stabilire i nostri rapporti su
basi serie. Ho ultimamente proposto al Santo Padre questo modus
vivendi. Si tratta, in fondo, di sudditi miei, sui quali ho un certo
diritto. Ebbene, gli ho detto, tutte le volte che nasce un tedesco
cattolico, io lo prendo, lo metto in una nurserie di Stato, lo allevo,
lo curo, poi lo passo in un giardino d'infanzia nazista, e, giunto
all'età di sei anni lo metto in una scuola. Poi gli insegno
un mestiere. A venti anni ne faccio un soldato. Compiuto il servizio
militare, lo rimetto nella vita, gli do un mestiere, una moglie,
e se ha dei bambini, ricomincio con quello che ho fatto del padre.
Il quale, giunto all'età di sessant'anni, lo metto in pensione,
e, quando muore, lo consegno al papa, perché ne faccia quello
che vuole. Ebbeneù
Gabriele - Ebbène?
Hitler - Il Santo Padre ha rifiutato le mie proposte.
"È la caricatura di Mussolini"
Sarà in libreria nei prossimi giorni per gli Oscar Mondadori
"Tecnica del colpo di Stato" di Curzio Malaparte (pagg. 240, Ç 7,40).
Pubblichiamo uno stralcio (riadattato dall'autore) dall'introduzione
di Francesco Perfetti.
di francesco perfetti
Negli ultimi mesi del 1930 Curzio Malaparte scrisse
Tecnica del colpo di Stato, il libro che gli avrebbe assicurato
il successo internazionale e avrebbe contribuito a inasprire i rapporti
con il regime. Egli era da tempo controllalo dalla polizia. Spostamenti
e frequentazioni erano segnalati da informatori: una nota del febbraio
1930 lo indicava "certo antifascista" e ne enfatizzava contatti
compromettenti. La sorveglianza era divenuta insistente dopo che
Malaparte ebbe inviato alcune corrispondenze sull'Urss che apparvero
inopportune, sia perché pubblicate in un quotidiano largamente
diffuso fra i lavoratori torinesi, sia perché, come gli fece
notare Arnaldo Mussolini, "potevano determinare nell'animo del vecchio
sovversivismo, un tumulto di ricordi, di passioni e di speranze".
Ma già Augusto Turati lo aveva messo in guardia sul fatto che
la sua posizione stava diventando diffìcile: se non fosse riuscito
a trasformare "La Stampa" in "organo veramente e giustamente fascista",
avrebbe concluso la carriera di direttore. Così avvenne. Malaparte
fu estromesso dalla direzione del quotidiano nel gennaio del 1931
e si trasferì a Parigi dove ebbe, per la gioia di solerti informatori,
contatti, episodici ma sufficienti a comprometterlo, con esponenti
del fuoruscitismo. E proprio, in Francia, in quello stesso anno,
uscì la prima edizione di Tecnica del colpo di Stato (l'edizione
italiana apparve solo nel 1949).
Era un saggio breve, ma sulfureo. Si proponeva di illustrare le
modalità di conquista dello Stato moderno e le possibilità
di questo dì resistere ai colpi di Stato. La tesi era semplice
e suggestiva. La storia dell'ultimo decennio è la storia dello
scontro fra "catilinari" di destra e sinistra, cioè fra difensori
dello Stato parlamentare e suoi avversari. Lo Stato moderno, così
complesso, è diventato "il luogo geometrico delle debolezze
e delle inquietudini dei popoli" il che ne rende difficile la difesa.
I problemi della sua conquista e de{la sua difesa sono questioni
tecniche e non politiche.
Trotzskij e Mussolini erano per Malaparte esempi di come fosse
stato possibile conquistare il potere con una tecnica insurrezionale
moderna. La novità introdotta dal primo era stata la "noncuranza
della situazione generale del paese" insieme con l'attenzione agli
"errori di Kerenski": pura tecnica, insomma. Dal canto suo Mussolini
era stato un rivoluzionario con "sensibilità moderna" e "intelligenza
marxista" dei problemi politici e sociali: un "catilinario di sinistra"
più che "di destra". Non a caso Malaparte non spinse la valutazione
positiva della tattica seguita dal fascismo oltre il momento rivoluzionario
che gli sembrava ora entrato "in affanno" per l'involuzione del
fascismo e l'imborghesimento di Mussolini.
Del disagio politico e personale di Malaparte testimoniano le incomplete,
ma suggestive pagine del Muss, che egli cominciò a scrivere
nell'anno stesso di pubblicazione della Tecnica All'epoca, il nazismo
non aveva conquistato il potere e il libro affrontava solo il problema
del "pericolo hitleriano". Il ritratto di Hitler è impietoso:
questo "austriaco grasso e orgoglioso, dai piccoli baffi posati
a farfalla sul labbro fine e corto, dagli occhi duri e diffidenti,
dall'ambizione tenace e dai propositi cinici" era "la caricatura
di Mussolini". Era "uno spirito profondamente femminile", la cui
intelligenza, ambizioni e volontà non avevano "nulla di virile":
come tutti i dittatori era "un debole" che si rifugiava "nella brutalità,
per nascondere la sua mancanza di energia, le sue debolezze sorprendenti,
il suo egoismo morboso, il suo orgoglio senza risorse". Per la Germania
la perdita della "libertà civile" sarebbe stata una grave calamità.
Quest'antipatia, colma di disprezzo, per Hitler e il nazismo, Malaparte
la ribadì in più occasioni. Lo fece con spirito sardonico
in articoli polemici e in scritti, che, con il paradosso e l'ironia,
misero alla gogna i difetti dello Stato totalitario, i suoi connotati
sacrali di religione laica e le tendenze autodivinizzanti del dittatore:
un esempio è nelle divertenti scene, in questa pagina riprodotte
e contenute nella nuova edizione di Tecnica del colpo di Stato;
le uniche scritte di una commedia dal titolo Herr Hitler goes to
Heaven, cui Malaparte pensò in anni più tardi di quelli
della stesura della Tecnica, quando la calamità paventata nel
libro si era ormai realizzata.
Il Sole - 24 Ore
8 dicembre 2002
CULTURA
E i giullari di piazza inventarono la novella
Mettevano in versi avventure e storie d'amore
Saccheggiarono tutti i grandi, compreso Boccaccio
di CESARE SEGRE
Una raccolta dei cantari che si diffusero in Italia fra Trecento
e Cinquecento. Sono testi per lo più anonimi, con l'eccezione
del geniale Antonio Pucci
Un genere che nacque negli stessi anni del "Decameron"
Si dice che la letteratura italiana non sia mai stata molto popolare.
È vero. Però in alcuni periodi certi prodotti poetici,
o persino interi cicli letterari, ebbero accoglienza entusiastica
anche dai molti analfabeti e dagli incolti. Uno dei casi più
felici è quello dei "cantari", poemetti che venivano appunto
cantati nelle piazze, con accompagnamento strumentale. I giullari,
o canterini, o cantimbanchi, sapevano attrarre e stimolare l'attenzione
degli ascoltatori, che potevano rendere ricca la questua prevista
alla fine della performance. L'ampiezza dei loro testi era calcolata
in modo da occupare una seduta (40-50 ottave); o, qualche volta,
si estendeva a due o più sedute.
I cantari erano di vario genere: classici, religiosi, cavaliereschi.
Forse i più belli e vari sono quelli novellistici, di cui è
ora pubblicata una raccolta praticamente esaustiva in due imponenti
volumi (una trentina di cantari), organizzata da Domenico De Robertis,
che si vale di ottimi collaboratori per l'efficace illustrazione
e la cura dei testi. Allestiti sempre ex novo, anche se esistono
già buone edizioni: gli specialisti misureranno i vantaggi
e gli svantaggi, anche per il noto problema delle irregolarità
metriche. Dicendo "cantari novellistici" non si precisa molto sui
loro soggetti; e di fatto la varietà è grande: si va da
episodi contemporanei a intrecci di provenienza classica, da storielle
comiche a veri e propri romanzi d'avventura. Una varietà che
non poteva stupire i patiti del grande Decameron, dove si riunisce,
sotto l'etichetta di "novella", un analogo assortimento tematico.
Siamo proprio negli anni intorno al Decameron, dato che i cantari
più antichi risalgono al secondo ventennio del Trecento; poi,
la produzione di questi testi continuò in tutto il Quattrocento
ed oltre. L'allusione al Boccaccio non è casuale. Grande creatore
di generi letterari, Boccaccio, verso il 1335, scriveva un poema
romanzesco in ottave, il Filostrato, e qualcuno pensò di attribuirgli
senz'altro l'invenzione del genere "cantare" (il più antico
manoscritto di cantare è del 1345). Se anche si rifiuta questa
ipotesi, resta l'attiguità fra i cantari e Boccaccio: quasi
garante e stimolatore di questa produzione.
Il problema tocca persino la storia della nostra metrica, perché
l'ottava, che diventerà schema principe della narrativa italiana
in versi, viene inventata contestualmente ai cantari. Il nesso tra
i cantari cavaliereschi e i grandi poemi come il Margarite del Pulci,
l'Orlando innamorato del Boiardo e il Furioso dell'Ariosto si rivela
appunto nel modo di maneggiare l'ottava e di sistemarvi il materiale
narrativo. Restando nell'ambito strettamente novellistico, diremo
intanto che è stata un'idea geniale quella di mettere in versi
il racconto delle Metamorfosi, già circolante in varie traduzioni,
su Piramo e Tisbe. La storia dei due giovani innamorati che alla
fine, per una serie di equivoci, si uccidono, lui credendo lei divorata
da un leone, lei trovando morto lui, era e resta avvincente sia
nei momenti dell'idillio, sia in quello della conclusione tragica.
Non meno tragica la Dama del Vergiù, dove l'appartata relazione
d'un cavaliere con una dama è messa a rischio da un'altra donna,
incapricciata del cavaliere. Essa lo accusa d'averla violentata,
costringendo lui, per difendersi, a rendere noto il suo amore segreto.
Violazione dell'impegno alla riservatezza e vergogna portano al
suicidio i due amanti.
Sul versante comico era certo stuzzicante la storia, narrata nel
cantare La lusignacca, dell'innamorata che trova il pretesto del
canto dell'usignuolo per dormire all'aperto, dove il suo moroso
la può raggiungere più facilmente. La storia piacque anche
al Boccaccio, come pure quella, svolta dopo di lui in due cantari,
di un ortolano melenso, oppure d'un prete mondano, che riesce a
giacere con tutte le monache di un convento. Boccaccio è saccheggiato,
o ben imitato, anche in altri cantari, come nella storia di Campriano
contadino, che con fantasiose invenzioni truffa due mercanti semplicioni,
facendoli poi annegare nel fiume.
Sono molti i cantari romanzeschi, con vicende che durano anni,
come il famoso Fiorìo e Biancifiore, che rifà un romanzo
francese non a caso imitato da Boccaccio nel Filocolo. I due giovani,
cresciuti insieme e innamorati, sono divisi per volontà del
padre di lui; ma Fiorio, allertato da un anello magico, accorre
a salvare Biancifiore tutte le volte che è in pericolo. Alla
fine sono condannati al rogo, ma l'anello li aiuta a scampare e
a riunirsi per sempre. La magia diventa ancora più determinante
nei.racconti con fate, naturalmente splendide, che spesso s'innamorano
di qualche valoroso cavaliere e lo rendono ricco e invulnerabile
(Bel Gherardino, Liombruno). Talora però la malia viene annullata
quando il giovane, magari per seri motivi, svela il suo segreto.
Nel Liombruno s'incontrano anche vari motivi novellistici tradizionali:
gli stivali delle sette leghe, il mantello che rende invisibile.
Chi si fermava ad ascoltare un cantare non era attratto dal nome
del canterino, ma dall'argomento; e del resto i cantari non erano
difesi da alcun copyright, e passavano da un esecutore a un altro.
Di qui la prevalente anonimia, cui fanno eccezione soltanto i sei
o sette cantari di un geniale e versatile Antonio Pucci (1309-1388),
che si provò anche in numerosi altri generi, soprattutto quello
storico. I cantari furono pure messi a stampa: stampe sempre di
carattere popolare, nelle quali ci possiamo render conto dei cambiamenti
apportati a un medesimo tema dai successivi canterini. In questo
modo l'opera, eseguita oralmente o stampata, continuava a vivere;
e talora continuò anche per più d'un secolo, diffondendosi
tra Toscana e Veneto. Era materia a disposizione di chi volesse
riprenderla o rileggerla, suscettibile di continuazioni e rimaneggiamenti,
così come oggi i film e telefilm di successo.
Lo stile non era raffinatissimo, e ricorreva spesso a luoghi comuni:
le donne sono belle come stelle, hanno le guance simili a rose o
a gigli; gli aggettivi sono spesso al superlativo, sicché
le bellissime e i bellissimi si sprecano. Soprattutto si facilita
la composizione dei versi con formule tuttofare, che passano da
un testo all'altro come utili riempitivi. Ma la freschezza delle
descrizioni affascinerà anche poeti di prim'ordine come Pulci
e Boiardo, che ne faranno tesoro. E si resta avvinti dalla bravura
nello svolgere la trama, non senza allusioni preziose a versi di
Dante o a testi d'insegnamento.
Perché i verseggiatori sono comunque immersi nella cultura
diffusa, conoscono Ovidio e Andrea Cappellano, gli affascinanti
poemetti romanzeschi francesi e i lais di Maria di Francia, da cui
provengono di solito le trame fantastiche. Il pubblico assaggiava
così raffinatezze ed emozioni cui non era avvezzo, era trasportato
in paesaggi idillici o esotici, si trovava accanto a principi, fate
e incantatrici. Una possibilità che è messa anche a nostra
disposizione dalla presente magnifica raccolta.
Il libro: "Cantari novellistici del Tre al Cinquecento", a cura
di E. Benucci, R. Manetti e F. Zabagli. Introduzione di D. De Robertis,
Salerno editrice, due volumi.
Corriere della Sera
5 dicembre 2002
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