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.: Caleidoscopio 1 (dicembre 2002)
Albright - Unione Europea e l'allargamento
G8, devastarono Genova - La crisi dell'auto
L'Italia frena ancora - Bambini, rapporto UNICEF
Mille leggende della Bora - La commedia di Malaparte
Giullari di piazza e la novella

 

 

L'ex segretario di stato di Clinton scettica sull'opportunità di un nuovo conflitto nel golfo

ALBRIGHT

"La guerra contro Al Quaeda più importante dell'Iraq"

"Se Bush constaterà che il rapporto sull'arsenale iracheno è menzognero sarebbe utile che spiegasse quali informazioni possiede così che il mondo capisca la nostra posizione"

Intervista

Paolo Mastrolilli

NEW YORK

L'avevano soprannominata la dama di ferro della diplomazia americana, con quelle spille a forma di aquila piazzate sulle giacche dei taileur. E nonostante il sorriso gentile, Madeleine Albright conserva il piglio dei giudizi decisi: attaccare Saddam adesso sarebbe un errore, perché prima c'è da sgominare al Qaeda, e se Bush ha davvero le prove del riarmo iracheno, deve tirarle fuori ora. La incontriamo al Council on Foreign Relations, dove l'ex segretario di Stato è venuta a presentare lo studio del Pew Research Center sul calo della popolarità degli Usa nel mondo.

Il suo ex capo, Bill Clinton, dice che la guerra contro bin Laden è più urgente dell'Iraq. Lei è d'accordo?

"La lotta contro il terrorismo è appena cominciata: c'è molto da fare e non possiamo distrarci. Sono convinta che l'Iraq è un pericolo e Saddam è terribile, l'ho ripetuto spesso. Ma abbiamo buone possibilità di contenerlo con altri mezzi. In questo momento, invece, dobbiamo preoccuparci di più di al Qaeda, considerando anche che bin Laden è ancora vivo".

Oggi è atteso all'Onu il rapporto iracheno sugli armamenti. Come dovrebbe reagire il governo americano?

"È molto importante svolgere un'opera di diplomazia dettagliata e consultazioni, a cui l'amministrazione è arrivata in ritardo, discutendo i prossimi passi. Io prevedo alcune settimane burrascose, perché stiamo già sentendo differenze all'interno del governo sul fatto se gli ispettori sono utili, e se quello che hanno scritto è una bugia o no. Se l'amministrazione contesterà il rapporto iracheno, sostenendo che Baghdad possiede armi di distruzione di massa, sarebbe molto utile che spiegasse quali informazioni possiede, per favorire tanto la diplomazia pubblica quanto quella privata. Gli Stati Uniti sono una democrazia, e non è antipatriottico chiedere questo genere di trasparenza. Anzi, domandarla è un dovere patriottico, che aiuterebbe la nostra diplomazia all'interno e all'estero, chiarendo perché stiamo facendo quello che facciamo. Alcuni sostengono che la ragione è il petrolio: io non lo credo, ma per dimostrarlo, le nostre motivazioni e azioni devono essere più trasparenti".

Il presidente Bush dice che la guerra dipende da Saddam. Secondo lei ci sarà lo scontro?

"Io invece penso che tutto dipenda da Bush. Non sono incline a credere a Saddam o a Tareq Aziz, ma il modo in cui è stato costruito il confronto viene descritto bene dal detto americano secondo cui sei dannato tanto se fai una cosa, quanto se non la fai, visto che qualcuno è alla ricerca della violazione materiale della nuova risoluzione. Lo dico considerando la retorica utilizzata finora. Vorrei sperare che ci fosse una maniera per evitare la guerra, perché non abbiamo ancora riflettuto sulle sue conseguenze non volute. Ma non possiamo contare su Saddam per aiutarci a questo scopo, perché alla fine fa sempre qualcosa di stupido. Quindi temo che siamo avviati verso la guerra, e tocca a Bush decidere se vuole cedere o no ai membri della sua amministrazione, che sono entrati nel governo con un'agenda predeterminata per fare qualcosa in Iraq, prima ancora che l'intera questione del terrorismo cominciasse".

Quale impatto avrebbe la guerra sulla Nato e su alleati come l'Italia?

"La domanda centrale da porsi è quanto la Nato e gli alleati verrebbero utilizzati nel conflitto. Ma nel recente vertice di Praga uno dei fatti più interessanti è stato il sostegno offerto da tutti i paesi membri".

La Turchia finora è stata molto prudente nell'appoggiare la politica Usa in Iraq. Dipende dalla questione curda?

"In parte, perché teme che dopo la caduta del regime iracheno la sua popolazione curda cerchi di unirsi con quelle degli altri paesi, per costituire il mitico stato del Kurdistan. Ma la faccenda è più complicata. La Turchia si trova in una posizione critica tra Europa e Asia, è un paese islamico con istituzioni secolari, e dopo la caduta dell'Urss è stata investita anche da una serie di problemi nuovi riguardo la stabilità dell'Asia centrale. Una parte della questione riguarda l'incertezza della popolazione su come il fatto di essere musulmani e secolari si combini col resto del mondo islamico, e poi c'è il terribile trattamento che l'Unione Europea ha riservato alla Turchia, ad esempio con le recenti dichiarazioni di Giscard d'Estaing, da cui mi aspettavo di meglio. Il rifiuto che Ankara ha percepito dall'Europa è stato umiliante, e si collega ad un'altra questione scottante come l'immigrazione, con la grande forza lavoro turca di fronte alla popolazione europea che invece continua ad invecchiare. Sta diventando un problema razziale, e credo che ora Washington debba spingere ancora di più affinché la Turchia abbia qualche forma di accesso all'UE. Rispetto all'Iraq, però, l'elemento più complicato è che stiamo chiedendo ad Ankara di fare qualcosa per la possibile guerra, in termini di basi, accesso o spazio aereo, in contraddizione diretta con i desideri della popolazione. La domanda, quindi, è quante volte puoi spingerti su un terreno simile, e quali problemi di lungo termine ti procuri chiedendo ad altre nazioni di agire così. È un interrogativo chiave perché il modello turco del paese islamico secolare è quello che vorremmo esportare in tutta la regione, e invece la guerra all'Iraq promette di far aumentare il già alto scontento della popolazione verso l'America".

Lo studio del Pew dice che la popolarità degli Usa è in calo. È colpa della retorica adottata negli ultimi mesi?

"La cosa essenziale è tornare alla diplomazia pubblica, cioè trovare la maniera di diffondere un messaggio globale, quando devi rivolgerti ad un'audience mista. Uno degli elementi che ha provocato la dicotomia dipende dal fatto che quando il presidente Bush si rivolge al pubblico interno, per unificare e incoraggiare tutti, può dare l'impressione di un atteggiamento troppo macho all'estero, perché oggi non si può più isolare il messaggio domestico da quello internazionale. Quindi dobbiamo trovare nuovi strumenti non per fare pubblicità al nostro paese, ma per diffondere informazioni sulle nostre posizioni".

La vostra gente sta perdendo contatto col resto del mondo?

"Io credo nella bontà fondamentale dell'America e degli americani, e non penso che ci sia un altro popolo più generoso. Resto anche convinta del fatto che gli Stati Uniti sono la nazione indispensabile. Il problema in questa amministrazione non è tanto che il nostro potere viene usato in maniera unilaterale, ma unidimensionale, per cui la bontà dei nostri propositi nell'affrontare problemi come il divario tra ricchi e poveri, o le possibili cause del terrorismo che facilitano il reclutamento da parte di al Qaeda, sfuggono o vengono fraintese. Bisogna spiegare alla nostra gente perché la politica estera non è una cosa estranea, e perché ciò che accade alle altre 189 nazioni dell'Onu ha un effetto su di noi. In America c'è un problema di presupponenza, che si risolve chiarendo l'importanza del soft power e di usarlo in collaborazione con gli altri paesi. E questo è un compito che non riguarda solo le istituzioni governative".

 

La Stampa

7 dicembre 2002

IL NUOVO CONTINENTE

L'Unione europea cerca il compromesso

Quanto costerà l'allargamento a Est?

COPENAGHEN - Due sono gli ostacoli che i leader dell'Unione europea, riuniti a Copenaghen, devono superare per il via libero definitivo allo storico allargamento dell'Ue: da un lato l'entità dei fondi da destinare ai nuovi Stati membri, tutti ex paesi comunisti, dall'altro la complicata questione diplomatica della Turchia, che chiede di essere ammessa già nel 2003 ai colloqui preliminari di ingresso.

Le decisioni che usciranno dal vertice potrebbero ridisegnare i confini dell'Europa ma, nello stesso tempo, suscitare malcontento nei nuovi arrivati e compromettere l'appoggio delle popolazioni che saranno chiamate ad approvare l'ingresso attraverso dei referendum. La partita, che coinvolge in modo particolare la Polonia, il più grande e per questo anche il più bisognoso dei paesi candidati, si gioca sulla cifra che i 15 sono disposti a elargire per sostenere i nuovi membri economicamente più arretrati: i dieci stati candidati per il 2004 (Polonia, Ungheria, Repubblica ceca, Slovacchia, Slovenia, Estonia, Lettonia, Lituania, Cipro e Malta), a cui si aggiungeranno nel 2007 la Bulgaria e la Romania, chiedono uno stanziamento di 42.5 miliardi di euro, quelli promessi per sostenere l'espansione. Ma ora alcuni degli Stati che spendono di più, tra cui la Germania, sostengono di non poter tenere fede all'impegno a causa della recessione in atto. Il presidente di turno dell'Ue, il primo ministro danese Anders Fogh Rasmussen, ha lanciato un appello ai leader dei 15 avvertendo che la trattativa per superare le difficoltà andrà avanti a oltranza. (reuters)

La Turchia si gioca tutto su Cipro

COPENAGHEN - Il nodo più diffìcile da sciogliere per i leader dell'Ue è quello della Turchia: il paese, sostenuto dagli Usa e dall'Italia, vorrebbe avviare i negoziati di ingresso nell'Unione nel 2003, ma si scontra con la resistenza di chi non la ritiene politicamente affidabile. In gioco, però, c'è soprattutto la questione di Cipro, divisa dal 74 tra Grecia e Turchia. Secondo il presidente turco, Ahmet Necdet Sezer, è in atto un tentativo di scambio: una data per i negoziati in cambio della soluzione della questione cipriota. (ansa)

Tra i nuovi arrivati cechi più euroscettici

I cechi sono i più euroscettici. Emerge da una statìstica effettuata a novembre dalla Georg (Central European Opinion Research Group) fra ungheresi, polacchi e cechi. Nella Repubblica ceca le persone favorevoli all'Ue sono il 62,4% contro il 73,5% in Polonia e il 73,5% in Ungheria. (ansa)

Pochi ungheresi lasceranno il paese

Gli ungheresi preferiscono il loro paese e sono resti agli spostamenti. Mentre si discute dell'allargamento dell'Ue, una ricerca dell'Istituto economico di Budapest evidenzia la staticità degli ungheresi, "nonostante le buone capacità e l'ottimo rendimento sul lavoro". (reuters)

La Lituania si candida a ponte con la Russia

La Lituania si propone all'Ue come ponte per rafforzare e stabilizzare i legami con Ucraina e Russia. Il presidente Valdas Adamkus ha sottolineato la necessità di non isolare l'Ucraina. Inoltre la Lituania, indipendente dall'Unione Sovietica dal 1991, è oggi il secondo partner economico della Russia, dopo l'Ue. (reuters)

CityRoma

13 dicembre 2002

 

IN PRIMO PIANO

G8, arresti tra i no global: "Devastarono Genova"

Emessi 23 provvedimenti, 13 di custodia cautelare. Il gip: in un solo giorno 121 episodi di violenza, potevano ripetere i reati.

DAL NOSTRO INVIATO

GENOVA - C'è una vittima del G8 della quale si è sempre parlato poco. Perché non ha un volto, un nome e un cognome. È una città, si chiama Genova, con tutti i suoi abitanti. Scrive il Gip Daloiso nell'ordinanza che dispone misure cautelari per 23 persone: "Nel corso di quei fatti, la messa in pericolo dell'ordine pubblico è stata gravissima, solo che si consideri il numero e la portata degli episodi delittuosi di vario genere, che si sono succeduti senza significative interruzioni, costellati da scontri violentissimi, episodi che hanno messo a ferro a fuoco la città, che ha vissuto una situazione di "guerriglia urbana" lesiva di ogni diritto di sicurezza dei cittadini". È l'immagine di quei due giorni del luglio 2001. Le 23 persone che ieri si sono viste bussare in casa al mattino presto (nove sono in carcere, 4 agli arresti domiciliari, ad altri 6 è stato notificato l'obbligo di dimora e a 4 l'obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria), è di questo che devono rispondere. Sono accusati di devastazione e saccheggio. Di un unico bene, una città. Ogni singola persona ha contribuito per conto suo a sfregiare il volto e l'anima di Genova. I magistrati Anna Canepa e Andrea Canciani, in silenzio, sopportando critiche ingenerose - l'eccesso di esuberanza dei pm di Cosenza come contraltare del loro (presunto) immobilismo - hanno contato quelle ferite, una ad una. Ed è un documento che fa impressione, nella sua concisione rende l'idea del furore di quei giorni. Il 20 luglio, giorno della morte di Carlo Giuliani, vi furono 121 episodi, che iniziano con la devastazione degli uffici del Credito italiano e proseguono con incendi di auto, edifici, negozi. Il giorno dopo "la città aveva riportato ulteriori gravissimi danni". Altri 95 episodi, "facendo cenno solo ai più rilevanti". La scelta della Procura di Genova è stata chiara. Lavorare sui singoli reati, commessi da singole persone. Per un motivo che ieri è stato spiegato dal procuratore aggiunto Giancarlo Pellegrino: "Per dimostrare che vi fu un piano preordinato, messo in atto da un gruppo organizzato, e quindi ipotizzare reati di tipo associativo (come è stato fatto a Cosenza, ndr), bisogna trovare legami stabili tra le persone, prove dell'esistenza di un "patto" e di una regia. Abbiamo ritenuto inutile dimostrare scenari indimostrabili". Nell'ordinanza si parla ovviamente anche di Black bloc ("Anarchici o presunti tali che si stavano preparando alla guerra"). Organizzati, istruiti sulla geografia della città, sapevano come muoversi. Ma è impossibile non solo provare il loro collegamento, ma anche procedere alle singole identificazioni. Il conto ci ha messo un po' ad arrivare, ma è salato. L'esecuzione delle 23 misure cautelari, coordinata dalla Digos di Genova, riguarda esponenti (a vario titolo) del mondo no global. Ci sono quelli ai margini, come Luca Finotti, Massimiliano Monai, Eurialo Predonzani (l'unico irreperibile), le tre persone accusate di tentato omicidio (contro i carabinieri che stavano nella camionetta) nell'inchiesta sulla morte di Carlo Giuliani. E poi esponenti dell'area anarchico insurrezionalista (che nulla a che fare con il movimento). Ma c'è anche Francesco Puglisi, leader dei no global catanesi, Federico Da Re, ex Tuta bianca, stesso centro sociale di Luca Casarini, Marina Cugnaschi, animalista lecchese. Nell'ordinanza e nella richiesta d'arresto, però, non c'è una singola riga di giudizio sui no global nel loro insieme. Solo uno sterminato elenco di fatti circostanziati. Un metodo di lavoro che il Gip riassume così: "Sono stati singolarmente indicati gli episodi contestati e gli elementi costituenti a carico di ciascuno gravi indizi di colpevolezza, ricostruendone la condotta nei giorni degli scontri quale risulta dalla documentazione filmata e fotografica e dalle testimonianze". Tutto qui. C'è un capitolo di 15 pagine che è la ricostruzione fedele degli avvenimenti di quei giorni. I movimenti dei Black bloc, da piazza Da Novi, ore 11, fino alla fine. Le cariche, il corteo delle Tute bianche, piazza Alimonda, e il giorno dopo la battaglia sul lungomare e alla Foce. Ogni spostamento, ogni rivolo di corteo. Un documento quasi definitivo. Anche tra i 23 vengono fatte distinzioni, a seconda della gravita dei loro gesti. Da quelli che hanno iniziato a spaccare tutto dal mattino, a chi ha combattuto in via Tolemaide e piazza Alimonda, dopo le cariche dei carabinieri. Le esigenze cautelari sono state motivate con il pericolo che i reati fossero reiterati. Resta la scelta di tempo. Poco dopo la fine dell'inchiesta sulla morte di Carlo Giuliani, e la scarcerazione dei no global arrestati dalla Procura di Cosenza. Le richieste dei pm erano arrivate a metà giugno, il Gip ha deciso il 2 dicembre. E proprio ieri il procuratore reggente Francesco Lalla ha annunciato di aver depositato la richiesta di archiviazione per i 93 arrestati durante il blitz alla Diaz. Pare una specie di risarcimento per i no global. Non è così, dice Lalla. "È un caso. I tempi per queste misure cautelari sono stati dettati anche dal Gip, che doveva esaminare una mole di materiale enorme. Il nostro obiettivo è chiudere le inchieste G8 entro l'anno". L'inchiesta sui reati di strada fatta da Canepa e Canciani è un altro tassello nella costruzione della storia di quei giorni. Non è finita, gli indagati sono più di 100. Ma il più è fatto. Per rendere giustizia a Genova: "Città risparmiata in pochissime zone, con danni miliardari - scrive il Gip - dove ci sono state condotte lesive del superiore interesse della collettività alla tranquillità e sicurezza". E a guardare la lista degli episodi accaduti in strada, c'è chi in Procura sostiene una tesi non troppo paradossale: sembrerà assurdo, ma in quei giorni poteva anche andare peggio.

Marco Imarisio

Corriere della Sera

5 dicembre 2002

 

ECONOMIA

La crisi dell'auto

Fiat e concorrenti: dove nasce il ritardo

L'analisi di Riccardo Gallo sul declino del Lingotto: tra le cause riduzione degli investimenti e incentivi alla clientela

DAL NOSTRO INVIATO

BOLOGNA -

"La crisi della Fiat non è solo congiunturale ma anche e soprattutto strutturale", ha ripetuto ieri al Motor show il ministro delle Attività produttive, Antonio Marzano. Del resto, che le difficoltà in cui si dibatte da tempo il Lingotto siano dovute anche in. buona parte a errori manageriali del passato lo hanno ammesso in tanti, con varie sfumature e intensità: dallo stesso Umberto Agnelli, principale azionista di Fiat, all'assemblea di Ifi dello scorso maggio fino a Silvio Berlusconi con affermazioni pepate che hanno provocato un'immediata reazione da parte della stessa azienda proprio alla vigilia della sigla dell'accordo - tra il Lingotto e il Governo - sulla cassa integrazione straordinaria. Troppe vendite a chilometri zero che fanno quote ma non utili; un eccessivo indebitamento; minori investimenti in ricerca e sviluppo rispetto ai concorrenti: su Fiat si è scatenata da tempo la caccia agli errori con una montagna di parole e anche di veleni. Ieri a Bologna, nel corso del convegno sull'industria dell'auto. Riccardo Gallo, professore di economia industriale alla Sapienza di Roma, ha presentato una ricerca in cui cerca di mettere a fuoco, con cifre e raffronti di mercato, il perché della crisi. Gallo parte da alcune osservazioni generali per poi vedere come Fiat si sia strategicamente comportata al riguardo. Ne esce una diagnosi tanto severa quanto documentata.

Meno investimenti. L'innovazione tecnologica accorcia la vita utile media del patrimonio tecnico (per comodità indicato Vu) che necessita quindi di un rinnovamento più veloce rispetto ad altri periodi del passato. Fiat auto si mostra in linea se non migliore dei suoi competitors stranieri fino a tutto l'esercizio 1997 che vede il punto più basso della Vu con 12,5 anni rispetto a 15,5 del '93. Ma da allora in poi tale cifra è cominciata a salire e nel giro di un biennio era già passata a 16 quando invece la media delle altre multinazionali dell'auto era scesa a 11,5. Di pari passo i nuovi investimenti sono calati dai 2,6 miliardi di euro del '93 a 1,3 nel '97 per poi salire di poco a 1,4 e a 1,5 nei due esercizi successivi. In rapporto alle immobilizzazioni tecniche lorde la percentuale di nuovi investimenti è scesa dal '97 in poi al 7% dal 20% del '92. Anche allora la Fiat non stava andando bene, ma tutti ricordano come l'Avvocato Agnelli, che era ancora alla presidenza, disse che in quell'anno l'azienda aveva fatto investimenti al limite del temerario.

Incentivi pericolosi. I prestiti ai clienti, soprattutto se a tasso zero: è questa la seconda osservazione generale di Gallo applicata all'industria automobilistica - che come è noto è una delle maggiori protagoniste del credito al consumo - appesantiscono il capitale circolante e dilatano l'indebitamento finanziario a breve. E Fiat Auto ha visto schizzare sempre più in alto, pericolosamente, il proprio indice che fotografa l'entità di incentivi finanziari sulle vendite e che viene fissato dal rapporto tra crediti finanziari e fatturato netto. Tale rapporto che era appena dello 0,5% nel '93 si è dilatato fino a toccare il 25% nel 2000. Gallo non cita le vendite a chilometri zero ma il balzo dovrebbe essere l'effetto su larga scala di tale pratica che la nuova gestione di Giancarlo Boschetti ha praticamente interrotto. Anche se nel 2001 vi è stato un alleggerimento dei prestiti a tasso zero, le patologie emerse a partire dal '97 si sono ulteriormente aggravate, compiici la dinamica tecnologica rallentata e l'esplosione dei debiti finanziari. L'indice di indebitamento, dato dal rapporto tra debiti finanziari e capitale netto, è salito - osserva Gallo - dallo 0,9 del '94 fino al 7,9 del 2001. In pratica, se nel '94 la Fiat auto aveva 90 lire di debito per ogni 100 lire di mezzi propri, otto anni dopo il rapporto si è del tutto capovolto: per ogni 100 lire di mezzi propri ve ne sono 790 prese a debito.

Troppi debiti. Eccessivi debiti finanziari rispetto al capitale di rischio - è la terza osservazione fatta da Gallo - penalizzano il risultato economico. Ed è un effetto sotto gli occhi di tutti con il bilancio del Lingotto in profondo rosso e in particolare con Fiat Auto ad aver perso circa 4 miliardi come risultato netto nel triennio 2000-2002. Prendendo l'indice di redditività dei maggiori costruttori di auto si vede che nel 2001 Fiat è stata negativa per 2,2% come del resto anche General Motors (-0,9%). Al contrario Peugeot (6,5%), Volkswagen (6,1%), Renault-Nissan (1,9%) e' la convalescente Chrysler (1%) erano ben posizionate in territorio positivo.

Tagli e innovazione. Solo Ford, tra i big, ha fatto peggio di Fiat e Gm con una redditività negativa misurata dal Ros (Return on sales) pari al 5,7% contro il 3,7% positivo del 2000. E questo malgrado Ford abbia ridotto, chiudendo 5 impianti, la produzione del 16% e l'occupazione del 10%. Più efficace è stata l'analoga operazione portata a termine da Nissan e Chrysler, che hanno tagliato, rispettivamente, l'occupazione del 12% e del 14%. Come si vede la strada dei tagli che Fiat ha imboccato tra polemiche e tensioni resta - fino a prova contraria - la ricetta universalmente più diffusa tra le case d'auto in crisi, anche se poi tale terapia diventa veramente efficace solo si accompagna a un forte salto di innovazione nel prodotto, nel marketing e nella commercializzazione.

I primati Ferrari. Come corollario alla sua ricerca, Gallo ha fatto un confronto tra Fiat e la sua controllata Ferrari: un parallelo giudicato dai presenti a Bologna piuttosto ardito - non solo per dimensioni e obiettivi diversi - ma è servito a mettere in rilievo, con le performance da primato di Ferrari, alcuni altri handicap del Lingotto. Ad esempio, è stato rilevato che solo "solo il 10% del valore delle auto Fiat viene dall'interno dell'impresa. Per Ferrari tale cifra, che è poi il valore aggiunto, è pari al 25 per cento". E ancora: ogni dipendente Fiat Auto genera 39mila euro di valore all'anno, uno della Ferrari 180 mila. E se la Fiat è fortemente indebitata, in particolare l'Auto, Ferrari può esibire un rapporto del tutto brillante: solo 3 euro di debiti per ogni 10 euro di capitale netto di rischio.

A. BER.

Il Sole - 24 ore

8 dicembre 2002

 

ECONOMIA

Bruxelles: l'economia dell'area euro potrebbe contrarsi all'inizio del 2003. In Usa accelera la produttività

"L'Italia frena ancora, ripresa rinviata"

Per Confindustria quest'anno la crescita si fermerà allo 0,4%, deficit verso il 2,6%

ROMA - Una crescita modesta, non più dello 0,4% del pil per il 2002 e dell'1,4% nel 2003 che si conferma come "anno di convalescenza". La Confindustria, nelle sue ultime previsioni, non vede affatto rosa. E trova conferma nei dati diffusi da Bruxelles: nell'ultimo trimestre dell'anno l'economia crescerà solo fra lo 0,2 e lo 0,5% mentre all'inizio del 2003 potrà passare anche in zona negativa tra meno 0,2% e più 0,2%. Le stime sul disavanzo pubblico realizzate dall'ufficio studi dell'associazione degli imprenditori sono peggiori di quelle del governo: 2,6% del prodotto interno lordo nel 2002 e 2,3% l'anno prossimo. A questo si aggiungono la crisi dei consumi, il clima di scarsa fiducia acuito anche dalle difficoltà della Fiat, l'incognita della devolution che sembra destinata ad aggravare i conti pubblici e l'inflazione il cui divario con il resto d'Europa è sempre più evidente. Unica nota positiva l'esclusione di una manovra aggiuntiva. E il presidente degli industriali Antonio D'Amato è tornato a chiedere con insistenza un'accelerazione delle riforme del mercato del lavoro, del fisco e delle pensioni. "La crescita è più bassa di quella prevista dall'esecutivo - ha detto D'Amato - e dobbiamo fare chiarezza se questo è un Paese a declino industriale o se è solo un declino competitivo". "È più probabile che la ripresa sia solo rinviata. Ma dobbiamo aspettarci una situazione altalenante per diversi mesi", ha sottolineato Vittorio Mincato, consigliere incaricato per il Centro Studi della Confindustria.

MALE UE, BENE USA - I dati diffusi ieri dagli economisti del commissario europeo Pedro Solbes denotano una forte contrazione dei consumi rilevata dal calo delle immatricolazioni delle automobili e della fiducia nelle vendite al dettaglio. Negli Usa invece gli ordinativi dell'industria sono tornati a crescere dell'1,5% (meno però delle aspettative) a fronte del calo di settembre pari al 2,3%. Meglio ancora la produttività del lavoro che nel terzo trimestre è stata rivista al 5,1% contro la precedente stima del 4%.

L'ASSENZA DI TREMONTI - II tradizionale intervento del ministro dell'Economia era stato confermato fino a poche ore prima, ma non c'è stato. E D'Amato non ha mancato di sottolineare l'assenza stigmatizzando che gli "sarebbe piaciuto ascoltare Giulio Tremonti perché ci avrebbe sicuramente aiutato a capire, evitando i rischi di polemiche sulla stampa sulle nostre previsioni economiche". Che non sono "né ottimistiche, né pessimistiche ma realistiche". Tremonti non ha risposto, nemmeno nel pomeriggio impegnato com'era a risolvere i rebus della Finanziaria e a rispondere a un question time alla Camera. In soccorso è arrivato il sottosegretario Vito Tanzi secondo il quale la stima del 2,6% gli sembra "un po' alta" e, comunque, è "sempre difficile fare previsioni azzeccate".

MANOVRA NON CHIARA - L'estensore del rapporto confindustriale Giampaolo Galli ha criticato la manovra del governo sostenendo che all'appello mancano 3-4 miliardi di euro. "Ci sono troppi elementi di incertezza - ha detto - e secondo la tabella della relazione tecnica la manovra netta ammonta a 9,6 miliardi di euro contro i 13 al netto degli sgravi fiscali previsti dalla Finanziaria". Una differenza che sia Bankitalia che Isae hanno classificato come "risparmi vari" ma che "in realtà non è mai stato chiarito a quali interventi si riferiscano".

LE CRITICHE - Per l'economista Daniel Gros, invitato da Confindustria a parlare dell'Italia, il governo dovrebbe essere "molto cauto ad abbassare le tasse senza prima aver tagliato le spese". E ha lanciato un velato allarme sulla scarsa riduzione del debito pubblico italiano. Enrico Letta, responsabile economico della Margherita, facendo ricorso a lucidi e grafici ha dimostrato come l'Italia si stia allontanando dai parametri europei e ha paventato, usando una metafora, una fine alla "Swiss Air". Infine il presidente Consob Luigi Spaventa ha criticato la riforma della corporate governance perché "non aiuta le imprese a fare il passo verso la quotazione". Si è lamentato dei tempi lunghi della giustizia e del controllo da parte di gruppi quotati dei mezzi di informazione.

Roberto Bagnoli

Corriere della Sera

5 dicembre 2002

I FATTI DELLA VITA

"Ascoltare i bambini per farne adulti migliori"
II rapporto Unicef racconta l'infanzia trascurata

CITTÀ DEL MESSICO - Per migliorare il mondo politici, genitori ed educatori dovrebbero ascoltare di più i bambini e sopprattutto prendere sul serio le loro opinioni. Dall'educazione, all'Aids fino alla guerra - problemi che il più delle volte li toccano da vicino - spesso hanno loro la chiave di lettura giusta dei problemi. La raccomandazione è contenuta nel rapporto 2003 dell'Unicef.

Da una serie di indagini condotte per tre anni tra 40mila bambini di quattro continenti, emerge che i più piccoli non hanno fiducia nelle istituzioni politiche: non credono nel voto come strumento per cambiare le loro vite e non guardano ai leader politici come a dei modelli. Questa sfiducia, secondo l'Unicef, è una conseguenza del loro mancato coinvolgimento nelle decisioni che li riguardano da vicino e di un ristretto accesso all'educazione. Se non cambiamo atteggiamento, se non trasmettiamo ai bambini i valori democratici e non diamo loro più voce, prosegue il rapporto, rischiamo di trovarci presto in un mondo "di giovani adulti che non sapranno esprimersi, dialogare in modo costruttivo, assumersi responsabilità né per se stessi né per gli altri". Non per nulla la parola d'ordine del rapporto è "dialogo intergenerazionale". I bambini sono una fonte preziosa di idee innovative per combattere piaghe come quella dell'Aids, per incentivare l'educazione e, non ultimo, per prevenire azioni terroristiche. "Se abbandonati a loro stessi, i bambini crescono senza educazione e rischiano di diventare giovani disperati, senza lavoro, facile preda del terrorismo" spiega Carol Bellamy, direttore esecutivo dell'Unicef . "Se invece li rendiamo partecipi delle possibili soluzioni di problemi che li riguardano - prosegue - cresceremo giovani rispettosi e preoccupati sia dei loro diritti che di quelli degli altri". E i problemi che toccano i bambini da vicini nel mondo sono tanti. Nei paesi in via di sviluppo 50 milioni sono malnutriti, 120 milioni non vanno a scuola, 180 milioni sono vittime del lavoro minorile. Dal 1990 a oggi più di 2 milioni di bambini sono stati uccisi, 6 milioni sono stati gravemente feriti nel corso di guerre, mentre 14 milioni di bambini sotto i 15 anni hanno perso almeno uno dei due genitori per colpa dell'Aids. Ogni giorno 6.000 giovani vengono uccisi dal virus. (reuters, ap)

CityRoma

13 dicembre 2003

 

Le mille leggende della Bora quel vento che ruba l'anima

di Paolo Rumiz

Quando è gentile ruba i cappelli e alza le gonne ispira canzonette e fa ammattire la psiche

Il poeta Slataper scrisse: "È il tuo respiro fratello gigante"

Chissà se i giocatori della Roma che ieri hanno affrontato la Triestina in casa sua in una serataccia di vento, sapevano, prima di entrare in campo, che il 15 febbraio del '53 la squadra di casa battè per due a uno la Juventus di Boniperti e Hansen in un giorno di bora a 140 che gelò i polpacci della Vecchia Signora. D'Alema, raccontano, uscì giallino di carnagione dalla barca che due anni fa gli fece correre la Barcolana con una bora indemoniata. Alla boa di Miramare, la penultima, il vento prese gli scafi di testa sul fianco sinistro e li annegò di spruzzaglia gelata come il Mare Artico tra la Scozia e le Isole Ebridi.

Ai forestieri bisogna spiegarlo ogni volta daccapo. C'è il vento e c'è la bora. Il vento, dice Stendhal, è quando "si è costantemente occupati a tenere stretto il cappello". Bora è quando "si ha paura di rompersi un braccio". La bora desertifica strade, affonda barche, scoperchia case, rovescia treni, sradica alberi, sbriciola tegole e staccionate, trasforma i moli in banchisa e gli alberi in foreste di cristallo, prende di petto gli aerei e li fa atterrare da fermi come aquiloni.Quand'è gentile, si limita a rubare cappelli, a far volare ombrelli, alzare gonne e gonfiare pastrani.

Così succede che quando torna, lei non si limita a rimettere le cose a posto, come ha fatto ieri, chiudendo i conti con uno schifoso autunno monsonico. Fa di più: racconta una leggenda. E proprio ieri, col vento di Nord-est che ha scosso a 130 orari quest'angolo matto di Mediterraneo, è arrivato "Il libro della bora", di Corrado Beici. Un libro che costruisce, sulla città "cara al cuore" ma lontana dalla Capitale, uno zibaldone di storie stupefacenti.

Durissimo mettere la bora in un libro, ti scappa da tutte le parti. Argomento che non si lascia acchiappare: deborda nella geografia, sconfina nella storia, sibila storie e canzonette, alimenta manuali di botanica e meteorologia, si infila nelle chiacchiere da caffè, fa ammattire la psiche, provoca e toglie le depressioni, ripulisce l'aria dalle pestilenze, gonfia vele e mitologie con la stessa incredibile disinvoltura. Impossibile costruire su questo vento una storia organica. Devi rassegnarti a rincorrerlo. E prenderlo talvolta per la coda. Le legioni impararono presto a fare i conti con la bora. Nel 394 l'imperatore romano d'Oriente, Teodosio, battè l'usurpatore d'Occidente Flavio Eugenio e poté riunificare per pochi mesi l'impero, grazie al vento che venendo da dietro raddoppiò la portata dei suoi giavellotti. Vinse il buon Teodosio e gioì, ma quella stessa bora lo uccise poche settimane dopo, con una polmonite presa sul campo di battaglia, nella valle del Vipacco, sulla storica soglia di Gorizia dove da millenni si scontrano i popoli e i venti.

Che storie. Come quella di Fouché, il fosco poliziotto di Napoleone che a Trieste concluse la sua esistenza terrena e la cui bara fu rovesciata con il carro per una raffica di bora e neve.Fu così che, in una sera tempestosa, l'ex ministro della polizia napoleonica, l'uomo disprezzato da tutti, "scese tra le ire del cielo nei riposi eterni della tomba". Succede così, la bora è la bora. "La bora - scriveva Scipio Slataper - è il tuo respiro, fratello gigante".

Essere triestini non è solo un'origine geografica. È una categoria dello spirito. I triestini sono una razza inquieta di esploratori di bettole e grandi spazi aperti. In entrambe le direzioni, la bora da loro la spinta determinante, li obbliga a trovar rifugio al chiuso di una taverna piena di fumo, ma li invita anche al viaggio, ripulisce l'orizzonte e lo propone come meta. "Quando vidi il mare pulirsi - racconta Scipio Slataper - e sentii fremere intorno a me l'aria, giungendomi alla pelle un piacevole frizzo e alle nari un fresco e leggero odore di sassi e di pini, allora capii cos'era. Nasceva la bora".

È un vento solido, quasi liquido. È alta poche decine di metri. Si forma nel vallone fra Trieste e Lubiana, si comprime come un proiettile nelle lande sotto il monte Nevoso, poi se ti becca son dolori. Devi aggrapparti all'erba secca per non volare come un vecchio barattolo. Talvolta comincia con un ululo cupo e la pioggia, poi il fischio diventa una nota continua, sempre più bassa. Allora la temperatura scende, impercettibile, ma regolare. I friulani ne hanno paura, la chiamano "Vent sclàf", vento slavo, facendo del vento una metafora demografica, simbolo della massa nomade e bellicosa che preme sulle pianure padane e dintorni.

Il poeta triestino Umberto Saba amò la bora scura, quella che spacca tutto col cielo nero. Odiò invece quella solare, artica. "Conosco la bora, chiara e scura, la detesto quando scende fuori misura con cielo sereno. Amo l'altra che ha una buia violenza cattiva". E aggiunse: "Io devo recuperare la bora / oppure qui affondare / nel mio paese natale / nella mia triste Trieste / nella mia Trieste triste / che amare è impossibile / e odiare anche".

E Tomizza, il poeta istriano di "Materada". La bora, scrisse, "porta ognuno a ritrovare una parte di se stesso rimasta immutata dai giorni dell'infanzia, e nel contempo uguaglia tutti, rendendoli anche solidali fra loro, fedelmente attaccati a questo unico e composto margine di terra che ogni tanto, con la bora appunto, dichiara la sua assolutezza e la sua irripetibilità".

Cos'è? Un vento continentale freddo e secco che scende con violenza dall'altopiano carsico al mare.

Bora chiara e Bora scura

Bora chiara (simpatica) - anticiclonica, col cielo sereno

Bora scura (antipatica) - ciclonica, con pioggia e nevischio. Arriva quando c'è una depressione sulla penisola italiana.

Dove nasce? La sue gestazione avviene in un catino più grande di mezzo continente. Nelle aree di alta pressione, le zone fredde dell'Europa centrorientale.

Il fratello gemello: l'Oroshi soffia a sud-ovest di Tokyo e nasce dall'altopiano del Tibet.

Ogni capitale della Bora (Trieste, Aidussina, Senj, Fiume) ha i suoi luoghi record dove vengono fissati sui marciapiedi i paletti con le corde per i passanti.

Il sito [w] www.museobora.org - tutto sulla Bora e il museo dei venti.

La Repubblica

5 dicembre 2002

 

In una commedia mai terminata e rimasta inedita, Curzio Malaparte metteva in ridicolo la megalomania di Adolf Hitler

Un dittatore in paradiso

di Curzio Malaparte

"L'arcangelo Gabriele? Che vorrà mai da me? Avete informato il nostro ambasciatore a Roma?"

"Noi non abbiamo ministri. È Dio che fa tutto. Il Regno del Cielo è uno Stato totalitario: come il vostro."

 

SCENA PRIMA

La grande sala della Wilhelm-strasse, in Berlino, dove lavora Hitler. A destra dello spettatore, con le spalle volte a chi guarda, Hitler è seduto davanti a un grande tavolo sgombro di carte. In piedi innanzi a lui, dall'altra parte del tavolo, è un segretario in divisa nazi, nera.

Segretario - No, non c'è altro di nuovo, stamani. Anche stamani è venuto, Mein Führer. È di là, in anticamera. Aspetta.

Hitler - Ancora? Ma non è stanco di aspettare? Sono quindici giorni che aspetta. Ci vuole una bella costanza.

Segretario - Dice che può aspettare. Che aspetterà un secolo, se occorre.

Hitler - Potessi aspettare anch'io, un secolo!

Segretario - Dice che non se ne andrà, se prima non vi ha visto e parlato.

Hitler - Che specie d'uomo è?

Segretario - Non è un uomo è proprio un angelo.

Hitler - Ah! E quale specie d'angelo?

Segretario - A giudicare dalle sue grandi ali, e dalla sua aria superba, altera si direbbe un Arcangelo.

Hitler - Ha proprio le ali? Due vere ali?

Segretario - Due vere ali, immense, che gli scendono dalle spalle fin quasi ai piedi. Le penne lucenti, argentee e d'oro. Un vero Arcangelo. Una strana luce emana dal suo viso e dalle sue mani.

Hitler - Chi potrà mai essere?

Segretario - L'ho interrogato con discrezione. Mi ha detto di essere l'Arcangelo Gabriele.

Hitler - L'Arcangelo Gabriele! Che vorrà mai da me? Ve lo ha detto?

Segretario - Non ha voluto precisare lo scopo della sua visita. Dice che ha cose molto importanti da comunicarvi da parte del suo Führer.

Hitler - Verrà forse ad annunziarmi qualche buona notizia. È un pezzo che non ricevo buone notizie. Avete informazioni su questo personaggio?

Segretario - Sì. La Direzione generale della Polizia mi ha comunicato proprio stamane il risultato delle sue indagini. (Tende al Führer un foglio di carta scritto a macchina)

Hitler - (leggendo). Le informazioni sono ottime, ma poco precise. Gabriele. L'Arcangelo Gabriele. Si assicura che si tratta proprio dell'Arcangelo Gabriele. Avete informato di questa strana visita il nostro ambasciatore a Roma?

Segretario - Sì, Mein Führer. L'ambasciatore se ne è interessato personalmente in un colloquio privato col Cardinale segretario di Stato. La Santa Sede non può dare nessuna seria garanzia sull'identità personale dell'Arcangelo Gabriele, perché gli Angeli non dipendono dall'amministrazione della Città del Vaticano. Il Cardinale segretario di Stato ha anche aggiunto, in via del tutto confidenziale, che la Santa Sede non vede di buon occhio questo diretto intervento della Provvidenza presso Vostra Eccellenza. Tutto ciò che concerne gli affari politici fra Dio e un qualunque Stato deve passare attraverso il tramite della Chiesa. Su questo argomento pare che il Santo Padre sia molto suscettibile.

Hitler - Io non posso, d'altra parte, rifiutare un'udienza all'ambasciatore straordinario di uno Stato, col quale il Reich intrattiene relazioni di buon vicinato. Che lingua parla?

Segretario - II tedesco, un tedesco perfetto. Con un lieve accento inglese, però. Forse Gabriele è un arcangelo di origine inglese.

Hitler - Non mi stupirebbe. Gli inglesi son capaci di tutto. Vi ha detto che cosa vuole da me? Quale sia lo scopo della sua visita?

Segretario - Dice che è cosa riservata.

Hitler - Fatelo entrare.

Segretario - Mein Führer, mi permetto di osservare, di pregarviù

Hitler - Avete forse paura per la mia persona?

Segretario - Non si sa mai, forse conviene non fidarsi troppo. Può essere pericoloso. Può avere qualche brutta intenzione.

Hitler - Fatelo entrare. Non ho paura degli Angeli.

Segretario - (esce, inchinandosi).

SCENA SECONDA

Gabriele - (entra dalla porta di fondo: è un vero Arcangelo, vestito di un mantello bianco. Alto, magro, i lunghi capelli biondi gli ricadono sulle spalle in morbidi riccioli d'oro. Ha le sopracciglia azzurre. Due immense ali gli palpitano lungo la schiena. Cammina lievemente, come se non toccasse il pavimento. Si ferma davanti al tavolo, a qualche passo di distanza. Solleva il braccio destro nel saluto nazista). Ave, Hitler.

Hitler - (si alza e risponde al saluto tendendo il braccio destro) Sedetevi, vi prego.

Gabriele - Vi ringrazio molto di avermi accordato questo colloquio. Avrei potuto entrare senza farmi annunciare, senza farmi vedere, dai vostri uscieri. Apparirvi all'improvviso davanti al vostro tavolo, in una rosa di luce. Ho preferito, con voi, non ricorrere ai miracoli.

Hitler - Apprezzo il vostro tatto. Ve ne sono grato. Voi sapete che i miracoliù

Gabriele - Sì, naturalmente, so che i miracoli sono puniti dalle leggi del Reich. Non volevo, d'altra parte, aver l'aria di visitarvi in segreto. Il mio Führer non ha nessuna ragione per tener segreta questa mia visita.

Hitler - Credevo che la vostra visita fosse del tutto personale. Non immaginavo che Dio vi mandasseù

Gabriele - No, io non sono che un ambasciatore.

Hitler - È il vostro ministro degli Esteri che vi manda a me?

Gabriele - Noi non abbiamo Ministri. È Dio che fa tutto. Il Regno del Cielo è uno Stato totalitario: come il vostro.

Hitler - Ciò che mi dite m'interessa in sommo grado. E avete anche voi unù

Gabriele - ùun Führer? Certamente. Ma è appunto la nostra organizzazione che costituisce l'argomento della mia visita. Il nostro Führer ha pensato che forse una maggiore conoscenza della nostra organizzazione statale potrebbe giovare a voi, agli uomini, nella loro opera di governo. E ha pensato che forse voi non.rifiutereste di compiere un breve viaggio nell'aldilà, per rendervi conto di persona dei benefici della organizzazione divina della società.

Hitler - Non capisco il senso reale delle vostre parole. Un viaggioù dove?

Gabriele - In Paradiso. Voi sareste il primo uomo che, da vivo, abbia avuto il sommo privilegio di visitare il Cielo, e di tornar poi sulla terra a giovarsi dell'esperienza.

Hitler - Siete sicuri che il Santo Padre, il vostro Vicario, non se ne avrebbe a male? Benché non sia intenzione mia criticare o discutere la politica della Chiesa, debbo dirvi che non è sempre facile, per noi, vivere d'accordo col Santo Padre.

Gabriele - La politica della Chiesa ha le sue esigenze, purtroppo sono esigenze umane. Ma forse voiù

Hitler - Ho fatto di tutto, in questi anni, per mettermi d'accordo col Sommo Pontefice, per stabilire i nostri rapporti su basi serie. Ho ultimamente proposto al Santo Padre questo modus vivendi. Si tratta, in fondo, di sudditi miei, sui quali ho un certo diritto. Ebbene, gli ho detto, tutte le volte che nasce un tedesco cattolico, io lo prendo, lo metto in una nurserie di Stato, lo allevo, lo curo, poi lo passo in un giardino d'infanzia nazista, e, giunto all'età di sei anni lo metto in una scuola. Poi gli insegno un mestiere. A venti anni ne faccio un soldato. Compiuto il servizio militare, lo rimetto nella vita, gli do un mestiere, una moglie, e se ha dei bambini, ricomincio con quello che ho fatto del padre. Il quale, giunto all'età di sessant'anni, lo metto in pensione, e, quando muore, lo consegno al papa, perché ne faccia quello che vuole. Ebbeneù

Gabriele - Ebbène?

Hitler - Il Santo Padre ha rifiutato le mie proposte.

 

"È la caricatura di Mussolini"

Sarà in libreria nei prossimi giorni per gli Oscar Mondadori "Tecnica del colpo di Stato" di Curzio Malaparte (pagg. 240, Ç 7,40). Pubblichiamo uno stralcio (riadattato dall'autore) dall'introduzione di Francesco Perfetti.

di francesco perfetti

Negli ultimi mesi del 1930 Curzio Malaparte scrisse
Tecnica del colpo di Stato, il libro che gli avrebbe assicurato il successo internazionale e avrebbe contribuito a inasprire i rapporti con il regime. Egli era da tempo controllalo dalla polizia. Spostamenti e frequentazioni erano segnalati da informatori: una nota del febbraio 1930 lo indicava "certo antifascista" e ne enfatizzava contatti compromettenti. La sorveglianza era divenuta insistente dopo che Malaparte ebbe inviato alcune corrispondenze sull'Urss che apparvero inopportune, sia perché pubblicate in un quotidiano largamente diffuso fra i lavoratori torinesi, sia perché, come gli fece notare Arnaldo Mussolini, "potevano determinare nell'animo del vecchio sovversivismo, un tumulto di ricordi, di passioni e di speranze". Ma già Augusto Turati lo aveva messo in guardia sul fatto che la sua posizione stava diventando diffìcile: se non fosse riuscito a trasformare "La Stampa" in "organo veramente e giustamente fascista", avrebbe concluso la carriera di direttore. Così avvenne. Malaparte fu estromesso dalla direzione del quotidiano nel gennaio del 1931 e si trasferì a Parigi dove ebbe, per la gioia di solerti informatori, contatti, episodici ma sufficienti a comprometterlo, con esponenti del fuoruscitismo. E proprio, in Francia, in quello stesso anno, uscì la prima edizione di Tecnica del colpo di Stato (l'edizione italiana apparve solo nel 1949).

Era un saggio breve, ma sulfureo. Si proponeva di illustrare le modalità di conquista dello Stato moderno e le possibilità di questo dì resistere ai colpi di Stato. La tesi era semplice e suggestiva. La storia dell'ultimo decennio è la storia dello scontro fra "catilinari" di destra e sinistra, cioè fra difensori dello Stato parlamentare e suoi avversari. Lo Stato moderno, così complesso, è diventato "il luogo geometrico delle debolezze e delle inquietudini dei popoli" il che ne rende difficile la difesa. I problemi della sua conquista e de{la sua difesa sono questioni tecniche e non politiche.

Trotzskij e Mussolini erano per Malaparte esempi di come fosse stato possibile conquistare il potere con una tecnica insurrezionale moderna. La novità introdotta dal primo era stata la "noncuranza della situazione generale del paese" insieme con l'attenzione agli "errori di Kerenski": pura tecnica, insomma. Dal canto suo Mussolini era stato un rivoluzionario con "sensibilità moderna" e "intelligenza marxista" dei problemi politici e sociali: un "catilinario di sinistra" più che "di destra". Non a caso Malaparte non spinse la valutazione positiva della tattica seguita dal fascismo oltre il momento rivoluzionario che gli sembrava ora entrato "in affanno" per l'involuzione del fascismo e l'imborghesimento di Mussolini.

Del disagio politico e personale di Malaparte testimoniano le incomplete, ma suggestive pagine del Muss, che egli cominciò a scrivere nell'anno stesso di pubblicazione della Tecnica All'epoca, il nazismo non aveva conquistato il potere e il libro affrontava solo il problema del "pericolo hitleriano". Il ritratto di Hitler è impietoso: questo "austriaco grasso e orgoglioso, dai piccoli baffi posati a farfalla sul labbro fine e corto, dagli occhi duri e diffidenti, dall'ambizione tenace e dai propositi cinici" era "la caricatura di Mussolini". Era "uno spirito profondamente femminile", la cui intelligenza, ambizioni e volontà non avevano "nulla di virile": come tutti i dittatori era "un debole" che si rifugiava "nella brutalità, per nascondere la sua mancanza di energia, le sue debolezze sorprendenti, il suo egoismo morboso, il suo orgoglio senza risorse". Per la Germania la perdita della "libertà civile" sarebbe stata una grave calamità.

Quest'antipatia, colma di disprezzo, per Hitler e il nazismo, Malaparte la ribadì in più occasioni. Lo fece con spirito sardonico in articoli polemici e in scritti, che, con il paradosso e l'ironia, misero alla gogna i difetti dello Stato totalitario, i suoi connotati sacrali di religione laica e le tendenze autodivinizzanti del dittatore: un esempio è nelle divertenti scene, in questa pagina riprodotte e contenute nella nuova edizione di Tecnica del colpo di Stato; le uniche scritte di una commedia dal titolo Herr Hitler goes to Heaven, cui Malaparte pensò in anni più tardi di quelli della stesura della Tecnica, quando la calamità paventata nel libro si era ormai realizzata.

Il Sole - 24 Ore

8 dicembre 2002

CULTURA

E i giullari di piazza inventarono la novella

Mettevano in versi avventure e storie d'amore

Saccheggiarono tutti i grandi, compreso Boccaccio

di CESARE SEGRE

Una raccolta dei cantari che si diffusero in Italia fra Trecento e Cinquecento. Sono testi per lo più anonimi, con l'eccezione del geniale Antonio Pucci

Un genere che nacque negli stessi anni del "Decameron"

Si dice che la letteratura italiana non sia mai stata molto popolare. È vero. Però in alcuni periodi certi prodotti poetici, o persino interi cicli letterari, ebbero accoglienza entusiastica anche dai molti analfabeti e dagli incolti. Uno dei casi più felici è quello dei "cantari", poemetti che venivano appunto cantati nelle piazze, con accompagnamento strumentale. I giullari, o canterini, o cantimbanchi, sapevano attrarre e stimolare l'attenzione degli ascoltatori, che potevano rendere ricca la questua prevista alla fine della performance. L'ampiezza dei loro testi era calcolata in modo da occupare una seduta (40-50 ottave); o, qualche volta, si estendeva a due o più sedute.

I cantari erano di vario genere: classici, religiosi, cavaliereschi. Forse i più belli e vari sono quelli novellistici, di cui è ora pubblicata una raccolta praticamente esaustiva in due imponenti volumi (una trentina di cantari), organizzata da Domenico De Robertis, che si vale di ottimi collaboratori per l'efficace illustrazione e la cura dei testi. Allestiti sempre ex novo, anche se esistono già buone edizioni: gli specialisti misureranno i vantaggi e gli svantaggi, anche per il noto problema delle irregolarità metriche. Dicendo "cantari novellistici" non si precisa molto sui loro soggetti; e di fatto la varietà è grande: si va da episodi contemporanei a intrecci di provenienza classica, da storielle comiche a veri e propri romanzi d'avventura. Una varietà che non poteva stupire i patiti del grande Decameron, dove si riunisce, sotto l'etichetta di "novella", un analogo assortimento tematico.

Siamo proprio negli anni intorno al Decameron, dato che i cantari più antichi risalgono al secondo ventennio del Trecento; poi, la produzione di questi testi continuò in tutto il Quattrocento ed oltre. L'allusione al Boccaccio non è casuale. Grande creatore di generi letterari, Boccaccio, verso il 1335, scriveva un poema romanzesco in ottave, il Filostrato, e qualcuno pensò di attribuirgli senz'altro l'invenzione del genere "cantare" (il più antico manoscritto di cantare è del 1345). Se anche si rifiuta questa ipotesi, resta l'attiguità fra i cantari e Boccaccio: quasi garante e stimolatore di questa produzione.

Il problema tocca persino la storia della nostra metrica, perché l'ottava, che diventerà schema principe della narrativa italiana in versi, viene inventata contestualmente ai cantari. Il nesso tra i cantari cavaliereschi e i grandi poemi come il Margarite del Pulci, l'Orlando innamorato del Boiardo e il Furioso dell'Ariosto si rivela appunto nel modo di maneggiare l'ottava e di sistemarvi il materiale narrativo. Restando nell'ambito strettamente novellistico, diremo intanto che è stata un'idea geniale quella di mettere in versi il racconto delle Metamorfosi, già circolante in varie traduzioni, su Piramo e Tisbe. La storia dei due giovani innamorati che alla fine, per una serie di equivoci, si uccidono, lui credendo lei divorata da un leone, lei trovando morto lui, era e resta avvincente sia nei momenti dell'idillio, sia in quello della conclusione tragica. Non meno tragica la Dama del Vergiù, dove l'appartata relazione d'un cavaliere con una dama è messa a rischio da un'altra donna, incapricciata del cavaliere. Essa lo accusa d'averla violentata, costringendo lui, per difendersi, a rendere noto il suo amore segreto. Violazione dell'impegno alla riservatezza e vergogna portano al suicidio i due amanti.

Sul versante comico era certo stuzzicante la storia, narrata nel cantare La lusignacca, dell'innamorata che trova il pretesto del canto dell'usignuolo per dormire all'aperto, dove il suo moroso la può raggiungere più facilmente. La storia piacque anche al Boccaccio, come pure quella, svolta dopo di lui in due cantari, di un ortolano melenso, oppure d'un prete mondano, che riesce a giacere con tutte le monache di un convento. Boccaccio è saccheggiato, o ben imitato, anche in altri cantari, come nella storia di Campriano contadino, che con fantasiose invenzioni truffa due mercanti semplicioni, facendoli poi annegare nel fiume.

Sono molti i cantari romanzeschi, con vicende che durano anni, come il famoso Fiorìo e Biancifiore, che rifà un romanzo francese non a caso imitato da Boccaccio nel Filocolo. I due giovani, cresciuti insieme e innamorati, sono divisi per volontà del padre di lui; ma Fiorio, allertato da un anello magico, accorre a salvare Biancifiore tutte le volte che è in pericolo. Alla fine sono condannati al rogo, ma l'anello li aiuta a scampare e a riunirsi per sempre. La magia diventa ancora più determinante nei.racconti con fate, naturalmente splendide, che spesso s'innamorano di qualche valoroso cavaliere e lo rendono ricco e invulnerabile (Bel Gherardino, Liombruno). Talora però la malia viene annullata quando il giovane, magari per seri motivi, svela il suo segreto. Nel Liombruno s'incontrano anche vari motivi novellistici tradizionali: gli stivali delle sette leghe, il mantello che rende invisibile.

Chi si fermava ad ascoltare un cantare non era attratto dal nome del canterino, ma dall'argomento; e del resto i cantari non erano difesi da alcun copyright, e passavano da un esecutore a un altro. Di qui la prevalente anonimia, cui fanno eccezione soltanto i sei o sette cantari di un geniale e versatile Antonio Pucci (1309-1388), che si provò anche in numerosi altri generi, soprattutto quello storico. I cantari furono pure messi a stampa: stampe sempre di carattere popolare, nelle quali ci possiamo render conto dei cambiamenti apportati a un medesimo tema dai successivi canterini. In questo modo l'opera, eseguita oralmente o stampata, continuava a vivere; e talora continuò anche per più d'un secolo, diffondendosi tra Toscana e Veneto. Era materia a disposizione di chi volesse riprenderla o rileggerla, suscettibile di continuazioni e rimaneggiamenti, così come oggi i film e telefilm di successo.

Lo stile non era raffinatissimo, e ricorreva spesso a luoghi comuni: le donne sono belle come stelle, hanno le guance simili a rose o a gigli; gli aggettivi sono spesso al superlativo, sicché le bellissime e i bellissimi si sprecano. Soprattutto si facilita la composizione dei versi con formule tuttofare, che passano da un testo all'altro come utili riempitivi. Ma la freschezza delle descrizioni affascinerà anche poeti di prim'ordine come Pulci e Boiardo, che ne faranno tesoro. E si resta avvinti dalla bravura nello svolgere la trama, non senza allusioni preziose a versi di Dante o a testi d'insegnamento.

Perché i verseggiatori sono comunque immersi nella cultura diffusa, conoscono Ovidio e Andrea Cappellano, gli affascinanti poemetti romanzeschi francesi e i lais di Maria di Francia, da cui provengono di solito le trame fantastiche. Il pubblico assaggiava così raffinatezze ed emozioni cui non era avvezzo, era trasportato in paesaggi idillici o esotici, si trovava accanto a principi, fate e incantatrici. Una possibilità che è messa anche a nostra disposizione dalla presente magnifica raccolta.

Il libro: "Cantari novellistici del Tre al Cinquecento", a cura di E. Benucci, R. Manetti e F. Zabagli. Introduzione di D. De Robertis, Salerno editrice, due volumi.

Corriere della Sera

5 dicembre 2002